Era il Ferragosto del 2015, lavoravo quel mese, e per passare un paio di giorni nel verde io e mio marito avevamo scelto un resort nelle Langhe, il Boscareto, dove Valentina Dogliani ci fa sempre sentire a casa, circondati dalla bellezza dei suoi vigneti. La domenica dopo pranzo, sottovoce ma con i grandi occhi azzurri pieni di luce, mi disse: «Ti devo far conoscere una persona molto speciale, dovete incontrare il Maestro».

Il Maestro era un tipo rock, fisico asciutto, maglietta bianca, jeans stretti e stivaletti neri, e quel ciuffo ribelle. Mi ha subito portato alla Londra della mia giovinezza, e non a caso Londra era casa per Ezio Bosso. Ezio era già stato colpito dalla malattia degenerativa che ora l’ha portato via a 48 anni, si muoveva a fatica, la voce tremava, ma le sue parole erano limpide. Siamo stati insieme tutto il pomeriggio, e in quelle ore ci ha raccontato della sua infanzia a Torino, della scoperta della musica, di un’insegnante tremenda, di Vienna e della passione per i compositori, Beethoven e l’imprescindibile Bach. Lui era intrippato dalle emozioni sovversive che la musica riesce a scatenare. La sua scelta di vocaboli era sempre accurata. Metteva insieme le parole in una danza come faceva con le note, scoprii dopo. Pensieri originali e sorprendenti, noi eravamo incantati, non succede spesso di incontrare persone come lui. Al di là del personaggio.

Perché Ezio era molto famoso all’estero: da Londra a Sydney, alle grandi capitali del mondo, ma meno conosciuto in Italia. Lo diventerà qualche mese dopo con un’apparizione a Sanremo, e incontrandomi dopo un suo concerto a cui mi aveva invitato, mi disse: «Eccoti, quante cose sono iniziate dopo quel bel pomeriggio». Perché più Ezio raccontava con energia sorprendente - rivolgendosi spesso in inglese a Michael, mio marito, per poi accendere l’ennesima sigaretta e addentrarsi nel racconto di un amore diventato splendida amicizia, che gli dava sostegno - più pensavo che la sua storia andasse raccontata nel giornale per il quale lavoravo allora. Ezio non cercava la notorietà fine a se stessa, l’apparire, era piuttosto schivo. A lui interessava trasmettere il suo lavoro, condividere il potere della musica. Alla fine accettò l’intervista che fece una brava collega settimane dopo, in un teatro di Gualtieri, fuori Reggio Emilia, dove registrava un concerto.

Rockettaro d’aspetto, il Maestro in realtà era un serissimo direttore d’orchestra e un compositore raffinato, un uomo colto. Verso sera, prima che tornassimo a casa, ci fece un regalo indimenticabile. Suonò soltanto per noi e per Valentina la sua The 12th Room, ispirata dalla lettura di un libro buddista tibetano, «la stanza in cui non esisto più». Quel pianoforte era pigro, ma lui toccò le corde giuste, e poi si lascio andare. Indimenticabili le espressioni felici del suo volto, l’estasi che lo rapiva mentre le dita scorrevano sulle note. Emozione ampliata dal privilegio di quel piccolo concerto privato.

Tornammo a Milano al tramonto, quando il sole se ne va nella luce rosea che ti avvolge magicamente in certe sere d’estate.

Maestro, incanterai le nuvole che ti hanno ispirato, e ovunque tu sia, spero ci sia un pianoforte per te.

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