«Non voglio suonare arrogante, mi perdonerà se sono schietta: sono sempre stata un’ottima studentessa, e molto prima che chiunque mi dicesse che ero carina già mi dicevano che ero intelligente. Sono stata una bambina e una ragazza cervellona, e credo che sia stato proprio il fatto che mi piaceva tanto usare la testa che mi ha spinto a recitare e ascrivere, e al resto della mia vita. Quella in cui mi trucco, e mi faccio pettinare, e indosso bei vestiti è la parte della mia vita che mi è più aliena. E se mi capita di notare che qualcuno resta sorpreso dal mio cervello sono a mia volta sorpresa, perché io lo do per scontato. Quindi quest’impressione che lei ha avuto, che pensassero “ma chi l’avrebbe mai detto, è intelligente”, io non l’ho avuta. Ma capisco il meccanismo di cui parla, l’ho visto succedere ad altre persone: voglio dire, ad altre donne».

Il nonno di Zoe Kazan si chiamava Elia, fu un famoso regista di cui probabilmente avete visto qualche film (Fronte del porto o Un tram che si chiama desiderio, o La valle dell’Eden), ma viene ricordato soprattutto perché testimoniò davanti alla commissione McCarthy, quella che dava la caccia ai comunisti di Hollywood. A gennaio, alla conferenza stampa in cui s’annunciava Il complotto contro l’America - la serie Sky tratta dal romanzo di Philip Roth in cui Zoe Kazan è una madre di famiglia ebrea in una distopia in cui l’America si allea coi nazisti durante la Seconda guerra mondiale - i giornalisti erano in sollucchero: una serie antifascista con quel nonno lì, presto, chiediamogliene conto.

Zoe diede una risposta perfetta, semplice nel concetto (possiamo fare meglio, possiamo crescere come Paese) e colta nei riferimenti, Steinbeck e la traduzione dall’ebraico d’una certa parola utile a capire il senso della storia di Caino e Abele. Tutti, dall’autore della serie (David Simon) in giù, strabiliarono pubblicamente. Ma è la storia della sua famiglia, e un pezzo di storia americana: ovvio che avesse una risposta intelligente in merito. Quindi a un certo punto della conversazione - siamo al telefono, lei è in Australia a girare una nuova serie - le cito l’episodio, e le chiedo se fosse l’effetto «è una ragazza carina ma ha anche un cervello». E lei mi dà la risposta che vi ho trascritto quassù, ovvero: queste cose accadono alle altre, del mio cervello nessuno dubita mai. Non crediate succeda spesso, che un’attrice non colga l’occasione per lagnarsi su un giornale. Ha anche una spiegazione razionale del perché tutti strabiliassero: «Credo lo stupore fosse dovuto al fatto che parlavo di quel tema: di solito non ne parlo. Non ho mai voluto essere portavoce della storia della mia famiglia, molti parenti hanno deciso di condurre vite riservate, e si tratta di qualcosa che è successo molto prima che io nascessi».
Più tardi mi dirà una cosa di cui non m’ero accorta guardandola nella serie, e che conferma che la vanità estetica ha poco spazio nella sua solida autostima: «Mi sono lasciata crescere i capelli bianchi così potevamo usare la parrucca solo per la parte posteriore della testa e
si faceva prima. I primi mi sono venuti poco dopo i vent’anni, non sono tantissimi ma di solito li tingo: sono tornati utili per far vedere lo stress al quale è sottoposta Bess».

Se qualcuno resta sorpreso dal mio cervello, sono a mia volta sorpresa, perché io lo do per scontato

Prima di arrivare a Trump (mica crederete si possa non parlare di Trump), passiamo per questo strano anno di figli a casa. Kazan ha una bambina (aveva sei mesi quand’è iniziata la produzione del Complotto contro l’America, tredici quando hanno finito di girare), e tempo fa ha twittato che, quando si vince un premio, bisognerebbe ringraziare le baby-sitter. Glielo ricordo, e conferma: «Le baby-sitter e le zie, e le nonne: chiunque sia una madre e anche una persona che lavora sa che c’è qualcuno che le permette di essere le due cose, e sono spesso persone invisibili, e dovremmo fare un passo verso il renderle meno invisibili». Le sue colleghe spesso dicono di non avere nessun aiuto in casa, anche quand’hanno diciotto figli. «Be’, ma sarà una balla, no? Se dicono così è perché c’è quest’idea terribile che le donne debbano essere supereroi, fare tutto da sole e pure con una mano legata dietro la schiena. C’è una specie di stigma circa l’avere bisogno d’aiuto se devi andare a lavorare, o meglio: vuoi andare a lavorare». Forse il grande non detto è proprio il volere una carriera, le donne che lavorano dicono sempre che lo fanno così le figlie avranno un modello comportamentale indipendente, mai perché a loro va di lavorare. «Lavori per tante ragioni, perché non vuoi stare con tua figlia tutto il giorno, perché vuoi contribuire finanziariamente alla tua famiglia. Poi certo, esci la mattina presto e torni che lei è già a letto, e quindi ti dici: almeno rappresento un esempio di cosa una donna possa fare, ottenere, raggiungere, ed è una piccola consolazione».

Se Zoe vincerà qualche premio (e ringrazierà la baby-sitter) per il ruolo di Bess Levin (nel romanzo la famiglia si chiamava Roth, nella serie le hanno cambiato cognome) sarà per una scena madre. Il bambino ebreo vicino di casa è stato mandato dal regime a vivere altrove, e la chiama una sera per dire che la sua mamma non è tornata a casa e lui non sa se è viva o morta. È una scena straziante, tutta su di lei che parla al telefono e sprofonda in una disperazione assoluta, e io faccio l’errore di chiedergliene dettagli. «È stata la più difficile, la regista ha voluto farla in una sola ripresa, che è una splendida sfida ma è come lavorare in teatro. E poi non c’era il bambino, al telefono, le battute me le dava l’assistente alla regia, una signora di quarant’anni di fianco alla macchina da presa, c’è voluto un bel lavoro d’immaginazione». Mi sento come se avessi scostato la tenda di Oz.

zoe kazan in una scena della serie tv il complotto contro l'americapinterest
Courtesy Sky

Zoe Kazan nei panni di Bess Levin, madre di famiglia ebrea, in una scena della serie tv in sei puntate Il complotto contro l'America, in onda su Sky Atlantic. Nel cast ci sono anche Winona Ryder e John Turturro.

La ragione per cui l’America, nel Complotto, è dalla parte dei cattivi è che, nella storia immaginata da Roth, alle elezioni del 1940 Roosevelt perde contro Charles Lindbergh, aviatore famoso per aver attraversato per primo da solo l’Atlantico, e che davvero aveva simpatie naziste. Quando uscì, era il primo romanzo di Roth dopo l’11 settembre, e a tutti sembrò allegoria di quel complotto lì. Adesso, sembra parlare di Trump. «Roth era adamantino nel dire che non era una metafora di Bush, ma a me è sempre parso poco credibile che una mente politica come la sua scrivesse qualcosa d’impermeabile all’attualità. Girando la serie ci dicevamo: penseranno che abbiamo inventato che America First, lo slogan di Trump, fosse stato quello di Lindbergh. Roth (morto nel 2018, a progetto già avviato, è nei titoli di testa come coproduttore esecutivo, ndr) aveva detto a David Simon di non andarci troppo pesante coi parallelismi, perché Lindbergh era pur sempre un eroe americano, Trump... no».

C’è stata una polemica per Al Pacino, non ebreo, che interpreta l’ebreo nella serie Hunters. Ormai viviamo in un mondo che pretende identità tra arte e vita, e lei non è ebrea. «Imporre dei limiti all’arte mi sembra didattico e sbagliato, dire a chi è permesso fare cosa è un passo in una direzione pericolosa, considerato ciò che la storia ci dice di quel che succede quando agli artisti viene detto cosa possono o non possono fare. Poi Al Pacino è il più grande attore vivente, può fare quel che vuole, ma se si tingesse la faccia di nero per fare un afroamericano diremmo che non va bene: il confine è scivoloso. Che non sono ebrea è la prima cosa che ho obiettato a David quando mi ha offerto il ruolo». I social le hanno risparmiato lo scandalo. «Sono una persona che sceglie molto accuratamente le parole, e mi fa ammattire quando mi citano cambiando qualcosa, o fuori contesto» - che è un po’ il mestiere dei social. Sui quali aggiunge: «Il problema con Internet, credo, è che è una sostanza, mi passi la parola, che non è regolamentata e di cui nessuno conosce davvero gli effetti». Le dico che non mi sembra troppo dipendente, sul suo Instagram neanche ci sono promozioni di alberghi o vestiti, come su quelli delle altre attrici. «Nessuno mi ha offerto niente, sarei felice di farci qualche soldo, lo scriva».