“L’Italia ha una marcia in più rispetto agli Stati Uniti. Non solo il cibo, il sole e lo stile, ma soprattutto il calore umano e la magia di quei rapporti che nascono all’improvviso con persone mai viste prima. Non è meraviglioso? Qui mi sento amato e qui ho trovato l’amore”.

Siamo in Sardegna e Matt Dillon arriva puntualissimo al nostro appuntamento in un giardino panoramico affacciato sul mare di Santa Margherita di Pula dove, da questa sera, inizierà la sua attività di presiedente di giuria della terza edizione del Filming Italy Sardegna Festival, uno dei primi festival del cinema a ricominciare dopo la pandemia.

“Il vostro Paese, aggiunge, ha reagito al Covid in maniera più unita rispetto al mio e i risultati si vedono. Da noi, sono tutti stufi di quello che sta accadendo e di come lo si sta gestendo. È vero che gli Stati Uniti sono un Paese enorme, ma questa è solo una scusa. Certo, ci sono anche dei bravi leader locali, penso ad esempio al governatore Andrew Cuomo che a New York ha fatto quello che ha fatto prima ed egregiamente il vostro Presidente del Consiglio”. Cuomo, quindi, come Conte, ma lui il nome non ce lo dice, “perché – confessa – non me lo ricordo”. “Più che i nomi, mi interessano le scelte che i leader devono fare: alcune sono fatte perché popolari; altre sono invece impopolari, ma da fare perché necessarie per l’intera comunità. Il nostro leader attuale questo particolare, e non solo questo, non lo ha capito ed è terribile”. Ogni riferimento a Trump, dunque, non è puramente casuale.

“Un leader, spiega, deve essere anche curioso del mondo e delle persone, di chi è diverso da lui, che è un po’ quello che deve fare un attore prima di interpretare un ruolo”. Lui, questo, lo fa da quarant’anni, da quando, quattordicenne, venne preso per caso da Jonathan Kaplan per Giovani Guerrieri. “Era il 1979 e da allora ho imparato molto sul campo e continuo a farlo. La mia è stata una carriera imperfetta e questo è stato solo un bene. Quando pensi di avere tutte le risposte, non c’è più nulla da fare”. Dopo ci sono stati altri film cult - da I ragazzi della 56ª Strada e Rusty il selvaggio di Francis Ford Coppola a Drugstore Cowboy e Da morire di Gus Van Sant, da Crash di Paul Haggis a La casa di Jack di Lars Von Trier. “Il salto che ho fatto – aggiunge - è stato grande, sento che il tempo è passato, ma mi piacciono ancora e tanto le sorprese”. Mentre ci parla ci fissa con il suo sguardo da sex symbol che fece innamorare orde di ragazzine e ragazzini, uno sguardo che, come tutto il resto, c’è ancora oggi che si avvicina ai 60 anni. La saggezza, però, come ha precisato più volte, l’ha avuta anche quando era giovane e anche questa volta precisa che se tante persone erano innamorate di lui,

“non significava che lo sarebbero state per sempre”

E a proposito del discusso film del regista danese, ricorda quando iniziò a leggere per la prima volta quel copione in Toscana. “Ero con la mia fidanzata (Roberta Mastromichele, ndr) e inizia a ridere, perché pensai subito che solo un genio folle come Lars avrebbe potuto pensarla, scriverla e trasformarla in un film”. “Non è certo un film per tutti, ma la sua scrittura brillante mi arrivò dritta al cuore. Accettai di farlo non perché fossi interessato alla vita di quel serial killer, ma perché mi incuriosiva il processo del viaggio interiore che avrei dovuto fare per entrarci. Quel processo è la parte più bella del mio lavoro”.

Se fare l’attore vuol dire fare l’interprete della visione di un altro, fare il regista è per lui – che lo ha già fatto una prima volta nel 2002 con City of Ghosts – è una delle cose che lo emoziona di più, “è la tua visione che si parla”. In questo anno in cui tutto si è fermato e stenta a ricominciare, Dillon ha realizzato di nuovo il suo sogno finendo un documentario a cui aveva iniziato a lavorare diversi anni fa. Si intitola “El Gran Fellove” ed è dedicato a Francisco Fellove Valdés, noto anche come El Gran Fellove, “un cantautore e cantante cubano che pochi cubani conoscono, un prolifico compositore della generazione dei sentimenti”. Come in Giovani guerrieri portava in dote un grandissimo personaggio, Richie White, anche in questo caso si è concentrato su un personaggio con caratteristiche reali. “Mi sono documentato su quel gigante della musica e alla fine sentivo di conoscerlo perfettamente. In questa epoca di dominio dello streaming, l’importante è che si continui a lavorare sui personaggi e così ho deciso di fare. Sono arrivato in Messico nel giorno in lui è morto ed è per questo che considero questo film come la storia del suo lascito e della forte empatia che ho avuto nei suoi confronti”.

Non preoccupiamoci, comunque, perché – Covid permettendo – torneremo a vedere Matt Dillon anche al cinema nelle vesti di attore in tre progetti. Il primo è The Land of Dreams di Shirin Neshat e Shoja Azari, una commedia in cui recita anche Isabella Rossellini, una feroce satira su un'America che chiude sempre più i confini tanto da diventare quasi un'isola. Poi sarà in Proxima, il film di Alice Winocour girato in diverse strutture dell’Agenzia spaziale europea in cui è accanto a Eva Green e nell’atteso Capone – il film di Josh Trank che narra ultimo periodo di vita di Al Capone interpretato da Tom Hardy che dopo dieci anni di prigione deve fare i conti con la demenza senile, il declino fisico ed i sensi di colpa per i crimini effettuati. “Capone non viene mai glorificato nel film e questo l’ho trovato molto interessante, è un uomo che a suo modo pensava di avere una sua responsabilità”. La mia - precisa prima di salutarci – per fortuna è sempre stata diversa dalla sua (ride, ndr). La sento sempre nei confronti del mio lavoro ed è quello che mi ha salvato e che continua a salvarmi”.