Paolo Rossi è morto” è una frase che sembra l’incipit in media res di un romanzo che si svolge nel 1982, quel tipo di attacco a una storia che, come nel film cult Viale del tramonto, parte informandoci che il protagonista è morto e seguiremo tutta la sua storia con questa consapevolezza. Sarebbe stato impensabile immaginarlo allora, quella notte dell’11 luglio del 1982, di doverlo salutare così presto: Paolo Rossi per i ragazzi del 1982 doveva vivere per sempre. In quel romanzo, siamo nella finale dei Mondiali di calcio in Spagna e gli italiani poco abituati alle grandi gioie di massa - per ricordarne una devi risalire all’armistizio -, sono inchiodati davanti alla tv che fa ascolti oggi impensabili. Le famiglie si sono riunite in una sola casa, in quella di chi ha la tv più grande, più bella, a colori, tanti hanno ancora solo quella in bianco e nero e dopo cena sono pronti a seguire quello che è sarà un evento di rottura perché a dissertare di pallone, da quei giorni, non sono più solo i maschi e qualche “maschiaccia”, come chiamavano le ragazze allo stadio: da quell’estate molte ragazzine svilupperanno la sensibilità di cogliere non dico un rigore, troppo facile, ma anche il fuorigioco meglio di un guardalinee. Qualcuna diventerà cronista sportiva.

bruno conti, giancarlo antognoni, paolo rossi, dino zoff, francesco graziani and franco selvaggi of italy celebrate with trophy after winning the final fifa world cup spain 1982 match between italy and germany at estadio santiago bernabéuon july 11, 1982 in madrid, spain photo by alessandro sabattinigetty imagespinterest
Alessandro Sabattini//Getty Images

Per chi quell’anno era adolescente, la vittoria al Mondiale 1982 e la mitragliata di goal che infilò Paolo Rossi sono stati un rito di passaggio riservato a pochi nella storia. Gli italiani non si volevano bene. Un noto settimanale, in un intervista al CT Enzo Bearzot pochi giorni prima della partenza per la Spagna aveva definito la nostra “una nazionale da ridere” e si beffava dell’allenatore chiedendo che ci andavamo a fare a scontrarci con squadroni come il Brasile di fenomeni come Zico e Falcão, come Eder, oggi dimenticato, che con quella faccia da angioletto rubacuori riusciva a sfondare (non metaforicamente, davvero) la rete con una pallonata, o Sócrates, il centrocampista con la laurea in medicina che non si allenava mai eppure scendeva in campo e faceva numeri da circo, o i ragazzi dell’Argentina, svezzati a dare i primi calci a piedi nudi sullo sterrato. O la Germania del gelido Karl-Heinz Rumenigge e del portiere a cerniera Toni Schumacher. Di lì a poche settimane, il New York Times parlerà dell'Italia come il place to be, la nazione in cui emergevano grandi stilisti, dove la gente comune vestiva come gli altri osavano solo per le grandi occasioni, con gli sportivi da prendere come esempio e la cucina da imparare. Era nato l'Italian style a tutto tondo.

Noi avevamo lo juventino Paolo Rossi e il romanista Bruno Conti, il secondo serviva al primo tutti i palloni buoni su un vassoio, e Paolo era sempre lì e li spediva in porta, prima sottovalutato, poi salendo di girone marcato peggio di un detenuto in 41 bis, che svicolava come un folletto tra le maglie della difesa avversaria. Avevamo Dino Zoff, il 40enne burbero, concentrato a parare tutto quello che gli volava vicino, avevamo Pietro Vierchowod, il difensore di Calcinate con papà ex soldato dell’Armata Russa, largo come una porta blindata, avevamo Marco Tardelli, la cui immagine esultante, dopo aver segnato il secondo goal, è diventato il simbolo della finale, e avevamo il modello del fair play Gaetano Scirea, il primo, di quella squadra storica, a lasciarci in uno stupido incidente d'auto a Varsavia. In quel mondiale Paolo Rossi segnò sei goal, tre al Brasile nel secondo turno eliminatorio in una partita che è stata una delle più favolose della storia del calcio. Aver avuto il privilegio di seguirla in diretta resta per molti una delle dieci cose da ricordare nell’ultimo istante di vita.

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Mark Leech/Offside//Getty Images

I brasiliani, i tedeschi, i camerunensi erano affascinanti, carismatici, atletici. Noi avevamo giusto Antonio Cabrini carino, gli altri nostri ragazzi erano esteticamente modesti ma non ce ne importava nulla, ci eravamo lasciate alle spalle il luogo comune del “le ragazze seguono le partite solo se i giocatori sono carini”, grazie alla nuova sensibilità che avevamo sviluppato eravamo tutte innamorate delle giocate, della tattica messa in campo, eravamo stregate dal silenzio stampa imposto da Bearzot che aveva avvolto tutti i giocatori di una cortina di mistero rendendoli eroi byroniani. Eravamo innamorate di Pablito Rossi da Prato, 25 anni, bello neanche un po’, la prima moglie Simonetta che lo attendeva in Italia col pancione, prime partite a nove anni nella squadretta del Santa Lucia sulle orme del papà Vittorio, anche lui calciatore, lo adoravamo perché ci stava regalando un lungo momento di orgoglio. I calciatori, una volta, non erano divi, non erano testimonial, non erano influencer, non cercavano followers sui social, non lanciavano mode di tagli di capelli e non sposavano veline o modelle. Quando uno usciva dal seminato come George Best e faceva il donnaiolo, tirava tardi nei locali e indulgeva in alcol e droghe, si biasimava. E parecchio.

Le vite dei calciatori erano semplici, senza grilli per la testa, erano solo sportivi e tuttalpiù sfioravano il gossip solo con un divorzio. Paolo Rossi era uno di questi, dedito al calcio come a una religione, tanti anni di militanza nella Juventus, poi il ritiro nel 1987, una breve incursione nella politica nel momento in cui si candidavano le glorie nazionali per acchiappare voti, una seconda moglie giornalista, Federica Cappelletti, tre figli, Alessandro, Sofia e Maria, una carriera di dirigente dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, l’impegno sociale in cui molti calciatori continuano a riversare la generosità e l’altruismo a cui vengono addestrati sin da piccoli, se no in squadra non ci puoi giocare. Ha pubblicato due bei libri che ora quelli sopra i 40 cercheranno (usati) per rivivere quegli istanti a Madrid dilatati all’infinito: Ho fatto piangere il Brasile, e 1982. Il mio mitico mondiale, per provare come ci si sente se quel 11 luglio del 1982, prima dell’inizio della favola, avessimo trovato un capitolo che ci avvisava: “Paolo Rossi muore il 9 dicembre 2020, l’anno del Covid, a soli 64 anni, sopraffatto dal cancro. Troppo presto”. Sarebbe stato troppo presto anche a 100.