Due mesi dopo che questa vicenda ha riempito le pagine dei giornali e ha scatenato i commenti sui social, il Volley Pordenone, la società sportiva con cui Lara Lugli era entrata in collisione, ha deciso di ritirare la citazione e di ottemperato a ogni obbligo verso la giocatrice. Ma che era successo? Rileggiamo la storia.
La vicenda della pallavolista Lara Lugli incinta è emersa proprio tra le celebrazioni della Giornata Internazionale delle Donne e apre un dibattito su più fronti. Il fatto: Lara Lugli, classe 1980, una carriera ventennale alle spalle, schiacciatrice del Volley Pordenone, rimane incinta nel 2019 e un lieto evento si trasforma in una controversia. Sul suo profilo Facebook, infatti, posta in questi giorni l’esito finale del rifiuto da parte della squadra, dopo il suo licenziamento, di versarle l'ultima retribuzione. In breve, come risposta all’ingiunzione con cui l’atleta chiedeva l’ultimo stipendio alla squadra, che oggi si chiama Maniago Pordenone, ha ricevuto una richiesta di danni per non aver comunicato mai “l’intenzione di voler avere figli” specificando che la scelta di Lara Lugli, comunicata quando la gravidanza era già avanzata, “ha portato la squadra a doversi privare di lei a stagione in corso, perdendo di conseguenza molti punti sul campo e infine anche lo sponsor».

Una frase, quella sulle intenzioni di maternità, che riporta ai colloqui di lavoro in cui milioni di donne si sono sentite chiedere dal futuro capo (spesso anche da altre donne) se avessero intenzione di avere figli. Fino a pochi anni fa, prima della riforma del 2017 che ha reso le dimissioni volontarie un atto complicatissimo, le aziende si tutelavano dalle future gravidanze delle dipendenti ponendo come condizione per l’assunzione la firma sulle famigerate dimissioni in bianco, un ricatto. Ci sono però mestieri in cui l’obbligo di evitare le gravidanze viene specificato nei contratti: ad esempio, un’attrice che deve girare un film in cui la protagonista non è incinta non può presentarsi al primo ciack con il pancione e deve impegnarsi a rimandare un’eventuale maternità. Per le lunghe serie tv, l’atteggiamento delle produzioni è diverso e a volte si trova il sistema per modificare la storia e consentire anche al personaggio di diventare madre. Nello sport, le cose sono molto più complicate.

Uno degli aspetti più surreali della condizione femminile del XXI secolo in Italia, infatti, è celata proprio nel doppio standard dello sport per il quale, in base a una legge di oltre 40 anni fa, solo gli uomini sono dei professionisti mentre le donne, anche dopo 20 anni di carriera, restano dilettanti. Nel 2020 un emendamento inserito nella legge di bilancio ha equiparato le donne ai colleghi maschi includendole nelle tutele sulle prestazioni di lavoro sportivo. Ma a smorzare gli entusiasmi ci pensò la capitana della nazionale di calcio femminile Sara Gama con un tweet: “Siamo professioniste oggi dopo questo? No. È l’inizio di una partita che va giocata con nuovi inserimenti e vinta? Sì”. Spettava infatti alle singole federazioni sportive adeguarsi all’emendamento, cosa che forse anche per l’anno difficile appena passato, non è stato fatta. Lara Lugli oggi, così come nel 2019, non è una giocatrice professionista e per questo la sua attività non prevede nessun diritto di maternità (oltre a molti altri). È giusto dare voce anche alla replica della squadra il cui presidente, Franco Rossato, ha specificato che in caso di interruzione anticipata del contratto era previsto che si sarebbero attivate clausole penalizzanti per l’atleta, che la squadra si è limitata a interrompere consensualmente il rapporto e si è avvalsa delle penalità solo dopo la richiesta di rimborso, che ritiene non sia dovuto. Il problema, infatti, è molto più ampio dello spazio di qualche foglio A4 di un contratto e risiede nella simbolica e persistente ricerca di errori nel comportamento femminile che genera confusione e disagi dannosi per tutti. Non fai figli, per cui stai minando la stabilità della società per egoismo. Li fai, e diventi un peso per i tuoi datori di lavoro, biasimata per aver dimostrato che il ruolo nel processo riproduttivo avrebbe dovuto scoraggiarti dal lavorare. Tutto è ancora da rimodellare a fondo, nel mondo del lavoro. Resta il fatto che al momento, di sportivi che hanno perso il posto per la gravidanza della moglie, non risulta ce ne siano mai stati.