Premessa: abbiamo immaginato due scenari possibili di una notte che per Laura Pausini rimarrà, comunque vada, stellare. Non vogliamo gufargliela ma vogliamo raccontarcela: un film dentro l'Olimpo dei film che ricorda tutta la strada, fatica, oneri & onori di Laura prima della notte del 26 aprile 2021 a Los Angeles per gli Oscar 2021.


SCENARIO A): LAURA PAUSINI VINCE L'OSCAR 2021

La vittoria di Laura Pausini agli Oscar 2021 è stata un'emorragia di normalità nello show business – un mondo che, anche prima della pandemia, era appeso alla vita solo grazie a continue trasfusioni di irrealtà.

L'urlo di felicità della cantante replicava in scala maggiore quello da lei prodotto in occasione degli scorsi Golden Globe; il quale, secondo le indiscrezioni, aveva costituito una semplice prova generale. Porca miseriaaaaaaaaa sarà ricordato per molti anni a venire accanto al funambolismo tra le poltrone di Roberto Benigni, agli Oscar del 1999 e come antitesi della compostezza di Gabriele Salvatores, nel '92. Si è trattato dello scoppio di contentezza di chi arriva alle vette partendo dal basso, ma anche di chi sa dare il giusto valore a una gioia ritrovata dopo un anno difficilissimo per tutti, perché in fin dei conti la miseria è una ed è veramente porca e non c'è molto altro da dire.

Laura Pausini, interprete e co-autrice di Io sì (Seen), colonna sonora del film La vita davanti a sé di Edoardo Ponti, era giunta al Kodak Theatre nella serata del 25 aprile, indossando un tailleur pantalone che omaggiava le linee di quello, celeberrimo, che l'accompagnò diciassettenne al trionfo sanremese e un coprimascherina che riportava il titolo di suo brano, Non c'è, esorcizzando con autoironia i due rischi quasi altrettanto insidiosi del Covid-19 e l'invidia di qualunque altra cantante italiana del passato, presente e futuro.

Una della caratteristiche generali delle persone che raggiungono la fama universale emettendo suoni è quella di propendere per la dimensione del mythos: si autorappresentano in azioni e storie Instagram che pongono al centro della loro estetica un distanziamento non solo sociale, ma quasi teologico dalle persone comuni. Laura Pausini, invece, sta fortemente dalla parte dell'epos. Così la sua discografia, negli anni, non ha mai smesso il tono di voce di un diario che, per quanto possa assumere tratti leggendari (come la proposta di matrimonio da parte di Jim Carrey), costituisce più un esempio che una sofisticazione per i fan che, almeno teoricamente, potrebbero ripeterne le gesta o, quantomeno, rispecchiarne le qualità. Questo Laura ha deciso una sera di trentotto anni fa, tacendo, tra le lacrime, alle domande di Pippo Baudo e chiedendogli, anzi, il permesso di andare a chiamare i genitori, per annunciare loro di aver appena vinto Sanremo. E ha continuato a deciderlo in occasione di ogni disco, concerto e premiazione della sua carriera.

Laura Pausini è, infatti, la migliore testimonial possibile di una particolare variante – di successo – dell'italiano all'estero.

La sua autenticità è sia in sprezzo delle regole del reality show, che trionfalizza la normalità, sia da quelle delle star consumate, che normalizzano i trionfi. Per Laura un trionfo è un trionfo e la normalità è la normalità. Le cose vanno tenute distinte e separate, come il Romagna DOC dal Rubicone IGT nelle vigne solarolesi. Il pausinismo è uno dei pochi casi in cui un prodotto italian sounding di così larga diffusione non è ingannevole, non arriva con un sapore diverso o un colore alterato nel piatto, come accade col parmesan o la salsa pomarola; ma è quello vero, anche quando la nostra canta Cielito lindo indossando un costume da mariachi o viene remixata da Takagi & Ketra.

Laura è diversa da tutte le altre star premiate su quello stesso palco anche perché sembra la versione di sé adolescente, come l'abbiamo conosciuta la prima volta, traslata nel futuro, fantascientificamente. "Quando provo a prepararle, queste cose non mi vengono mai bene. Ma quando sono spontanea vinco". Nel suo discorso di accettazione Laura ha parlato con il candore della debuttante davanti alla platea dell'Hotel Universal di Cervia, e non della vincitrice di quattro Grammy, un Golden Globe e oggi anche un Oscar. Teneva in una mano la statuetta come un animaletto ferito raccolto in campagna e non come un trofeo altisonante, mentre con l'altra reggeva ancora la bacchetta magica e il consueto escremento di unicorno che costituiscono il suo set di portafortuna.

Nelle parole che hanno seguito l'urlo, però, non sono mancate le frecciatine all'industria dello spettacolo che oggi la celebra e ieri l'aveva sottovalutata. "Ho fatto la pace con Warner e dunque non dirò di quanto furono pataca a non pagarmi il biglietto per i Latin Grammy del 2018, visto che gli sembravo troppo vëcia".

Anche nel tripudio l'eloquio di Laura è stato un porno della ruspantezza, da godere scena dopo scena. "Grazie agli Oscar e al loro dress code, che ha dato un senso al tapis roulant che odiavo e che mi ha permesso di ricevere questo premio senza indossare la canotta nera dei Grammy che avrei messo su Zùm". Contrapponendo sempre il suo funzionalismo romagnolo alla disfunzionalità hollywoodiana, Laura ha completato la teorizzazione di un io canto che è la risposta pop e contemporanea all'io so pasoliniano. "Come si dice nel film di Edoardo e Sofia (Loren, ndr), essere visti a volte può essere più importante che vincere. Nel dubbio, comunque, meglio aver vinto".

Laura Pausini, infine, ha dedicato l'Oscar al padre che, per primo, credette in lei, chiedendole di accompagnarlo nelle sue serate al piano bar. Lo ha evocato in pochi tratti, ma così intensi che il genitore sembrava zoombombare la cerimonia grazie a una qualche diavoleria tecnologica formato famiglia chiamata amore.

Prima che la cantante si congedasse dal pubblico, però, perfino l'emozione legata all'immagine di babbo Fabrizio ha dovuto far posto a quella causata da un ordine di pensieri completamente diverso. Per un attimo, corrispondente al sorriso più smagliante, la mente di Laura è volata a migliaia di chilometri di distanza da Hollywood, non lontano dalla sua Solarolo stessa. Attraversando l'oceano è arrivata nel salotto di un uomo quasi cinquantenne che, per rispettarne la privacy, chiameremo Marco, affermato manager nella piccola azienda di famiglia. Dopo quarant'anni di attesa, forse era giunto il momento perché uno dei dubbi più impegnativi mai espressi dal testo di un brano pausiniano – Chissà se tu mi penserai – trovasse finalmente risposta. Pare che, sintonizzato dal suo appartamento nel ravennate, quel Marco, ormai impossibilitato a negare l'evidenza, abbia lungamente, profondamente rosicato, circondato dall'affetto della sua coppia di barboncini toy:

l'affettuosissimo Viveme e la più schiva Solitudine.

SCENARIO B): LAURA PAUSINI NON VINCE L'OSCAR 2021

La sconfitta di Laura Pausini agli Oscar è stata la conferma del fatto, assai rassicurante sia l'establishment hollywoodiano che per la scena hip-hop della East Coast, che nonostante le apparenze il mondo dello spettacolo non è un paese per paesani. La brutta notizia per Laura e per Io sì (Seen) è stata una disfatta anche per milioni, se non miliardi, di provinciali provenienti da tutto il mondo.

È un vero peccato. Infatti, nelle prime fasi della produzione, Pausini non solo era riuscita a convincere l'autrice della versione originale del brano dell'importanza di una sua traduzione in italiano, ma aveva per giunta ottenuto che lo stesso fosse distribuito sempre in italiano anche nelle edizioni internazionali del film da cui è tratto. L'Oscar sarebbe stato dunque una risposta, tardiva ma decisiva, a tutti i provini con testi inediti in inglese presentati negli anni da qualsivoglia concorrente italiano di X-Factor. Inoltre, seppure il testo di Seen (di cui musica e parole originali sono di Diane Warren, la riconosciuta Emily Dickinson delle power ballad), sia di gran lunga migliore in inglese, nella forma cantata il pezzo suona molto meglio nella lingua di Petrarca e, appunto, di Laura (che di certo non ha voluto piegarsi a particolari vezzi di pronuncia posh, nell'inciderla in inglese).

Grazie lo stesso, Laura, di aver provato a risolvere una volta per tutte il conflitto tra platee grandi e piccole, grazie al tuo cursus honorum di duetti e collaborazioni lungo come un infinito arcobaleno in cui trova spazio ogni tonalità della voce umana. Allo stesso modo, tra un AFR (Album di Fine Rapporto) e un SRS (Singolo di Rinnovata Speranza), ogni gradazione dello spettro sentimentale ha trovato la sua rappresentanza nella tua discografia, come in un parlamento del cuore, composto da una camera bassa – la vita reale – e una alta – la musica – ai cui banchi dell'opposizione siedono gli amori strani, mentre su quelli della maggioranza governa la felicità.

Grazia lo stesso, Laura, di non aver mai messo da parte il tuo entusiasmo da sindrome dell'appartamento spagnolo, per cui i tuoi tour non sono mai stati solo tour, ma anche Erasmus, capaci di tracciare una linea di continuità tra le migliori balere romagnole e i peggiori bar di Caracas. Sei globale non tanto perché esprimi universalità, ponendoti al di sopra dei confini geografici o rivolgendosi, come fanno alcuni interpreti del Pop contemporaneo, a pubblici extraterritoriali; ma soprattutto perché ciascun popolo del mondo (va detto: specialmente i sudamericani) ravvede in te la propria provincialità. È per questo che sei salva dal provincialismo, che è lo spauracchio di tutti i provinciali e, in particolare, dei provinciali che fanno musica. Hai capito meglio di tutti i tuoi colleghi nazionali e internazionali che l'affrancamento dal provincialismo è un concetto un po' zen: lo puoi ottenere davvero solo se smetti di desiderarlo. E tu non lo hai desiderato nemmeno per un singolo, anche quando duettavi con Ray Charles. È per questo che ti trovi meglio a fare due chiacchiere con Beyoncé che con la Tatangelo.

Negli attimi in cui il nome del vincitore veniva pronunciato, tutto il documentario sui tuoi primi vent'anni di carriera, My Story ti deve essere passato davanti agli occhi. È solo un'iperbole di trascurabile entità affermare che le scene di My Story ambientate nel paesino in cui sei cresciuta sono tra le rappresentazioni di rimpatrio di vip più intense della storia della musica, seconde forse solo a quelle di Paul McCartney che torna a Liverpool nella celebre puntata di Carpool Karaoke.

Quando il treno delle 7.30 parte davanti ai tuoi occhi, ancora una volta senza Marco, è chiaro a tutti che il primo binario della stazione di Solarolo stava diventando la Penny Lane del pop italiano.

Ma in fondo hai comunque vinto. E non solo per il tuo dignitosissimo silenzio, anche nei momenti più bui della cerimonia, interrotto solo da qualche labiale di dubbia decifrazione (cut vègna un’azidènt?). Avevi già vinto anche solo per la conferenza stampa in cui reagivi alla candidatura agli Oscar, un flusso di coscienza lungo un'ora, da YouTuber navigata, in cui ti sei commossa insieme ai giornalisti e ti sei messa davvero a nudo: "Se non vinco, lo dico sinceramente che mi romperebbe un po'. Voglio crederci”. Hai vinto soprattutto quando hai raccontato tua figlia che reagiva alla tua reazione alla nomination. "Paola ha detto ai suoi compagni di classe: Mia mamma è nominata agli Oscar!. E tutti hanno risposto: Yeeeaaahhh!". Certe emozioni, certi ricordi, qui siamo sinceri, valgono più di tutti i Sanremo, dei Telegatti, dei Festivalbar, dei Grammy, dei Golden Globe e degli Oscar messi insieme.

A proposito: ci hanno riferito una scena del tutto inattesa, all'uscita dal Kodak Theatre. Un uomo si faceva largo tra i fotografi gridando il nome di Laura. Nonostante sembrasse, come ha riferito la stessa Pausini, "un poco timido", provava ad approcciare comunque la cantante, pronunciando delle parole non del tutto comprensibili, tra cui spiccavano espressioni come: "sono ritornato" e "premio di consolazione". L'uomo, identificato successivamente come M. *****, dirigente d'azienda faentino ed ex compagno di studi di Pausini, è attualmente ricoverato al Good Samaritan Hospital di Los Angeles, con prognosi riservata, per ferite lacero-contuse.

pausinipinterest
Getty Images