29 dicembre 2022, è morta Vivienne Westwood. A 81 anni ci lascia la donna che disegnava moda "per fare a pezzi la parola conformismo", l'attivista che ha cambiato per sempre le generazioni del passato e quelle del futuro.


Rileggendo Chic Savages, l’autobiografia di John Fairchild, leggendario editore di quotidiani di moda (suo WWD, il più autorevole Vangelo giornaliero del fashion-system), scritto nell’89, m’imbatto in una sua dichiarazione. Tra i fantastici sei “selvaggi dello stile” - gli autori dotati di idee di prima mano nella seconda metà del 900 - tra gli altri ci sono Yves Saint Laurent e Valentino, Karl Lagerfeld e Giorgio Armani, «ma solo una donna: Vivienne Westwood». Addirittura, la definisce the designer’s designer, quella a cui tutta l’industria dell’abbigliamento guardava per posizionare la barra dell’estetica a venire: «copiata da tutti, perfino dagli stilisti più intellettuali come Jean Paul Gaultier». Eppure, 32 anni fa lei era ancora confinata nel negozio londinese World’s End al 430 di King's Road, che aveva un grande orologio dalle lancette implacabilmente spostate all’indietro a velocità supersonica. La boutique aveva già cambiato vari nomi dalla sua fondazione, il 1971. Un anno che coincideva col divorzio dal primo marito e con l’innamoramento assoluto per un altro genio della britishness anticliché, Malcolm McLaren, manager musicale, stilista, inventore dei Sex Pistols. E così quello spazio si era chiamato Let it Rock, Too Fast To Live - Too Fast Too Die, fino all'esplicito Sex: parola che oggi induce più allo sbadiglio che all’eros, ma allora, con abiti di cuoio, accessori ispirati a pratiche “lo famo strano?”, magliette di latex, collane di catene e vetrine da porno-shop, aveva costretto la polizia a farne serrare le saracinesche. Ma Vivienne Westwood- che oggi compie 80 anni e nel ’74 mai sarebbe aspettata di diventare Dame, l’equivalente britannico della Legion d’Onore e dichiarata addirittura National Treasure - nel '76 l’aveva riaperto ribattezzandolo questa volta Seditionaries, gioco di parole fra seduzione e sedizione, con tanto di collezione omonima in grado di definire la cultura Punk. Un movimento di cui, con troppa faciloneria, ora ne viene definita “Queen”, la Regina.

london, england   july 21 dame vivienne westwood suspend 10 ft high inside giant bird cage in protest for julian assange at old bailey on july 21, 2020 in london, england dame vivienne westwood, re entering public life for the first time after having been shielding for 16 weeks during the covid 19 lockdown, suspends in giant birdcage in front of the old bailey criminal court, in protest about the illegal us extradition of julian assange for telling the truth about american war crimes photo by mike marslandwireimagepinterest
Mike Marsland//Getty Images

In realtà, a guardarlo da oggi, Westwood usa il pensiero punk - che glorificava l’imperfezione, il brutto, il disgustoso (nel negozio una gigantesca pantegana era tenuta viva in una gabbia vicino alla cassa), il pressapochismo, il fatevelo-da-voi, lo sputo sul sistema e sulla monarchia - come dispositivo indossabile squisitamente politico per dare corpo e un corpo al fine di trasmettere messaggi puntuali, feroci e appuntiti come le spille da balia che traforavano nasi, labbra, orecchie. T-shirt strappate e rattoppate, giacche da motociclista con quadruple fibbie, calze a rete squarciate, capelli da mohicano, make-up clowneschi: «Era ciò di cui i giovani avevano bisogno in quel momento», racconterà poi nell’autobiografia del 2014, a cui hanno collaborato molti dei suoi amici, tra cui Naomi Campbell, Jerry Hall, Bob Geldof e Julian Assange. Confermava così, nell’apparente marasma stilistico dai connotati “infernali” e ripugnanti per l’epoca, di restare fedele a quella ferrea disciplina che si portava appresso da quando, nata povera a Glossop, nel Derbyshire e dapprima maestra elementare. Tant’è vero che delle frasi mantra pronunciate lungo il suo percorso di lavoro, due ne rivelano la gigantesca grandezza morale, prima ancora che professionale:

«L’unico motivo per cui disegno moda è fare a pezzi la parola conformismo»

e:

«Ciò di cui ha bisogno la gioventù è la disciplina e una libreria fornita».

Decostruire accostando elementi diversi per rifondare una nuova ecologia dei segni: è all’interno di quelle due frasi che si dipana anche l’elaborazione di un’estetica che in seguito la porterà, lei che nasceva autodidatta, a studiare notti in biblioteca per conoscere tagli e confezione degli abiti nel corso della storia. Chi scrive ricorda con le lacrime agli occhi quando visitò la retrospettiva che il Victoria & Albert Museum le dedicò, prima designer vivente: un cappotto le cui maniche erano state tagliate tali e quali da quello di una figura maschile di un bassorilievo sumero. La stessa linearità ferrea applicata nella costruzione di un pensiero “anti”, era arrivata a quel punto che viene esplicitato da una meravigliosa massima di Leo Longanesi: «Quando la dissacrazione è a portata di stupido, bisogna dissacrare lo stupido». E allora: corsetti settecenteschi, scarpe dalle zeppe così alte che derivavano da quelle usate dalle cortigiane veneziane, mantelli orientalisti di tessuti preziosi a riprodurre i quadri di Moreau, la riproposta del faux cul ottocentesco, la rivisitazione della tradizione anglosassone, a partire dai tessuti: dal tartan al tweed, dalla lana alla saglia: la sua moda - più outsider che mai nel mettere insieme stimoli così diversi - è quasi severa nel mettere a punto un metodo che stabilisce una relazione tra moda e tempo dai ritmi perfetti, a cui lei aggiunge il suo estro in una triangolazione matematica. A nutrire il gossip, ci pensa in certe decisioni personali molto ironiche: nell’89 appare sulla cover della rivista Tatler nelle vesti di Margaret Thatcher. Sotto l’immagine, la scritta This woman was once a punk, cioè “Un tempo questa donna era punk”; il completo indossato da Westwood nell’immagine era stato ordinato per Thatcher, ma non le era ancora stato consegnato. Nel ’92 ritira l'onorificenza dell'Order of British Empire, rivelando ai fotografi che sotto il severo completo grigio non ha biancheria intima; sempre nello stesso anno, sposa uno dei suoi allievi di 25 anni più giovane, Andreas Kronthaler, a cui pian piano affiderà la direzione creativa del suo marchio. Perché sempre seguendo una coerenza che ha pochi simili tra i suoi colleghi e per molto, troppo tempo è stata male interpretata, «si è stancata di fare vestiti seguendo i ritmi di una produzione sempre più dannosa per l’ambiente».

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Mike Marsland//Getty Images

Contro l'affermazione che l’anticonsumismo e la moda si contraddicono a vicenda, nel 2007 ha detto: «Non mi sento a mio agio nel difendere i miei vestiti. Ma se hai i soldi per permetterteli, allora compra qualcosa da me. Non comprare troppo». Iconoclasta e pionieristica anche in questo, oggi Vivienne Westwood si batte - credendoci e agendo in prima persona - per i diritti dei prigionieri politici e per la difesa dell’ambiente. Per il Natale 2014 regala al primo ministro David Cameron un pacco contenente amianto per protestare contro la pratica del fracking. Sempre nel 2014 Westwood si schiera a favore dell’indipendenza della Scozia dal Regno Unito, portando una spilla della campagna per il sì durante una delle sfilate: «Odio l’Inghilterra. Mi piace la Scozia perché penso che gli scozzesi siano meglio di noi, più democratici». Nel 2015 Vivienne Westwood sostiene il partito inglese dei Verdi, a cui dona 300mila sterline. Però trova da ridire anche quando, nel 2018, dopo aver lavorato per tre anni a fianco della regista Lorna Tucker per il biopic Westwood: icona, attivista, punk, il giorno prima della première al Tribeca Film Festival di New York, se ne dissocia con un tweet dell’azienda: “È un peccato, perché il film è mediocre e Vivienne e Andreas non lo sono”. Difficile da amare, complessa, non esattamente disponibile a essere simpatica: qualcuno vi ha forse chiesto di trovarla adorabile? Lei no. E non lo farebbe mai. Ha scardinato tutto, riportando un ordine algebrico in ogni azione, e ciò dovrebbe far pensare chi dà del “vecchio” a 80enni come questi. «Non ho mai cercato di fare solo vestiti, volevo dare una bellissima opportunità alle persone di esprimere la loro personalità. E ciò ha a che fare con la qualità non con la quantità. Questa è la vera ribellione per me». Ditemi: c’è qualcosa di più autenticamente punk di una dichiarazione del genere?