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Come vive una prostituta? Cosa fa una prostituta? Cosa pensa una prostituta? Me lo sono chiesto tante volte da bambina, quando ero in macchina con i miei genitori al rientro dalle cena di famiglia e ne vedevamo qualcuna sul ciglio della strada vicino ai focherelli. Se chiedevo ai miei chi fossero quelle signorine e come mai non sentivano freddo con le gambe nude, mi rispondevano che vendevano il loro corpo, che dovevano mostrarlo e che al freddo erano abituate, che quello era il mestiere più vecchio del mondo. E finiva lì. Cosa volesse dire non lo sapevo, e accontentandomi di quelle mezze verità ho accettato che le parole potessero restare senza significato, a volte. Sarà per questo che a scuola per imparare l'inglese ci ho messo il doppio degli altri. Poi sono cresciuta, mi è stato spiegato “come nascono i bambini” e ho capito che tutte quelle cose si potevano fare anche senza necessariamente rimanere incinta, e che le prostitute facevano esattamente quello. A pagamento.

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Quando ho iniziato l’università e mi sono trasferita a Roma, ero passata attraverso una serie di professori dalle ottime intenzioni che mi avevano insegnato a non avere pregiudizi di nessun tipo. Nessuno era da disprezzare, tutti erano da rispettare a meno che non facessero del male al prossimo. Credo di non aver mai pensato agli omosessuali come a qualcosa di diverso dagli etero, né che una persona col colore della pelle diverso dal mio potesse essere diversa in altri modi. Mi era stato inculcato un tale senso del rispetto per il prossimo da finire a volte per esagerare. Mi vergognavo di me se una persona non mi piaceva, mi sentivo cattiva e sbagliata. Ho persino baciato ragazzi che non mi piacevano per rispettare questo principio. All’ultimo anno di università decisi di comprare un’auto e per risparmiare, e pagarne le rate, mi spostai in un’altra casa dove una ragazza un po’ più grande di me e più squattrinata di me mi subaffittò una camera. No, non era un’altra studentessa. Lei lavorava già.

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Che lavoro faceva l’ho scoperto dopo qualche giorno, quando ormai mi era terribilmente simpatica. Credo che lei abbia capito da subito che tipo fossi e che forse non avrei protestato nello scoprire i suoi segreti. Se no non mi avrebbe accettata come inquilina. La sera, dopo cena, era pronta per uscire. Sempre. Miniabiti, tacchi altissimi, trucco vistoso. Niente gioielli, solo bigiotteria. Si infilava una pelliccia colorata e fintissima e usciva anche con la pioggia e con il freddo. Erica, la chiamerò così, non mi dava spiegazioni. Ma neanche mi diceva bugie del tipo “faccio i cocktail in discoteca”. Non diceva nulla. Non aveva intenzione di prendermi in giro e di questo gliene sono stata grata da subito. Ogni giorno mi concedeva un pezzetto di verità e ne ero orgogliosa perché mi sentivo in grado di essere amica di una outsider. Cominciò a non appartarsi più quando riceveva una telefonata. Cominciò a parlare di “clienti”. Mi chiedeva come stava con questo o quel vestito, cosa “acchiappava” di più secondo me. In casa non riceveva mai nessun uomo. Chiamava un taxi sempre alla stessa ora, mi salutava e si faceva portare verso luoghi bui e misteriosi che provavo a immaginare senza riuscirci. Tornava a notte fonda e passava una buona mezz’ora sotto la doccia, tanto da svegliarmi. Si svegliava tardissimo. Poi, un giorno che c’era lo sciopero dei taxi, mi ha chiesto di accompagnarla al lavoro. Siamo arrivate in una strada dove c’erano già tante altre donne. È scesa e mi ha salutata con un sorriso, e sono ripartita col cuore stretto.

Perché ormai a Erica volevo bene. Quando non lavorava si comportava come una mamma. Ci divertivamo, dimenticavo chi fosse. Una volta che sono rimasta a secco di soldi per un imprevisto siamo andate a fare la spesa insieme al super e ha pagato lei per tutte e due. Due giorni a settimana stava a casa e la puliva da cima a fondo, come se volesse pulire i ricordi del lavoro. La sera ci mettevamo sul divano con un barattolo di gelato a testa o un secchio di patatine e guardavamo programmi trash in tv. Piano piano mi raccontò di lei, di come era arrivata a Roma dalla provincia per diventare parrucchiera, di quando un’amica le aveva detto che c’erano modi molto più veloci per guadagnare soldi e lei ci aveva provato. Per una volta sola, aveva giurato. Quasi per scherzo. Così da potersi comprare quel paio di scarpe di Jimmy Choo che avrebbero dato alle sue amiche del paese l’idea che ce l’aveva fatta, che era una vincente. Ma poi aveva perso il lavoro al negozio di parrucchiera e, allo stesso tempo, i suoi genitori si erano cacciati in un guaio, avevano impegnato la casa per aprire un negozio ma era andato così male che stavano perdendo tutto quello che avevano. Ed Erica non voleva che perdessero la casa dove era cresciuta, la considerava l’unico punto fermo della sua vita. Aveva un fratello più grande, ma quella che si è rimboccata le maniche per prima è stata lei.

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Così, con quel lavoro, aveva iniziato a pagare le rate del prestito e i genitori non le avevano mai chiesto da dove prendesse tutti quei soldi. Tanto lei rideva sempre, faceva battute dove infilava i claim delle pubblicità. Ogni tanto però il suo sguardo si velava e immaginavo che stesse rivivendo qualcosa che aveva fatto con un cliente. Io non riuscivo più a guardare un uomo con gli stessi occhi. Al mio ragazzo di allora non avevo raccontato niente e mi chiedevo: anche lui andrà con le prostitute? Finalmente l’ho detta, la parola: prostitute. Quando abbiamo preso confidenza, Erica ha cominciato a raccontarmi ironica: “stanotte quelli con la fede al dito erano due, più uno col seggiolino del bimbo sul sedile posteriore”. Poi ha iniziato a invitare a cena qualche collega. Io le ascoltavo, a volte sentivo che dentro di me tutto si rapprendeva quando dicevano qualcosa di molto, troppo forte. Una prestazione particolarmente perversa. O se deridevano il vecchietto che si era arrabbiato perché niente gli funzionava più. Parlavano sempre dei clienti come fossero una razza inferiore. Erica e le sue amiche compravano montagne di gratta e vinci nei bar notturni, progettavano di trovare un lavoro per cui le avrebbero pagate molto senza bisogno di fare niente con i loro corpo. Le loro notizie di gossip preferite erano quelle sulle star beccate nude sullo yacht col teleobiettivo, o di quando rimanevano coinvolte in uno scandalo sessuale. Oppure adoravano scoprire che questa o quella aveva girato un film osé in gioventù. "Anche le dive sbagliano", commentavano.

A volte io e Erica abbiamo litigato. Giusto un paio, come quando mi ha detto “dai, in fondo ogni donna vorrebbe provare almeno una volta a battere il marciapiede per curiosità, per farsi gridare tutti quei complimenti”. Quando le ho detto che non era affatto così si è offesa perché le ho sbattuto in faccia la verità che non voleva fosse data per scontata: che il suo era un lavoro sgradevole. Ma più conoscevo Erica, più mi sentivo legata a lei. E apprezzavo l’assenza totale delle bugie nel suo modo di ragionare. Perché una come lei cosa aveva da nascondere con me, peggio del lavoro che faceva? Ormai mi sentivo in ansia quando usciva la sera. Non mi sono mai permessa di dirle “perché non smetti?”. Certo che avrebbe voluto smettere, ma ci mancavo solo io ad aggiungere sensi di colpa al carico che si portava sulle spalle ai cenoni di Natale con la sua famiglia. Alla consapevolezza che se ne avesse parlato apertamente, il fratello o il papà l’avrebbero pure biasimata. La mamma forse no. Poi una notte, alle 4.30, non era ancora rientrata. Me ne sono accorta andando in bagno. Quando ho visto la sua stanza vuota, attraverso la porta aperta, il cuore mi è balzato in gola.

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Sono saltata in auto in pigiama e sono corsa a cercarla in quella strada dove l’avevo accompagnata una volta. Ma non c’era più nessuno e il sole stava sorgendo. Ho provato a chiamarla al cellulare e squillava a vuoto. Sono rimasta ad aspettare a casa sveglia. Non sono andata a lezione e non sapevo se avrei dovuto avvisare la polizia. Cosa mi avrebbero risposto? Una come lei è un essere umano di serie B? Invece si è presentata a mezzogiorno, col trucco sfatto ma illesa, persino contenta. Aveva conosciuto un cliente che le piaceva. Un ragazzo bello, gentile, e per una volta aveva voluto fingere di essere una ragazza qualsiasi che incontra un bel tipo in discoteca o in un bar e si concede un’avventura occasionale. A casa di lui, invece che in auto. Senza denaro di mezzo. Non me la sono sentita di sgridarla. Di lì a pochi mesi ho dato l’ultimo esame e quando ho discusso la tesi e preso la laurea, le nostre strade si sono divise. Provavo un misto di dispiacere per la separazione, e di gratitudine per avermi fatto conoscere come stanno veramente le cose al di là dei luoghi comuni. Ma sentivo pure che quella esperienza trasgressiva che non mi ero voluta negare doveva giungere al termine prima che mi trasformasse troppo. Prima che mi rendesse insensibile mentre ascoltavo la descrizione di una performance troppo cruenta. E prima che conoscere bene le tariffe delle prestazioni sessuali cominciasse a risultare bizzarro ai miei amici. Sono passati sette anni da allora, e siccome Erica cambiava spesso il numero di cellulare, a un certo punto ci siamo perse di vista. Mi chiedo che fine abbia fatto. Era una con le spalle forti, se la sapeva cavare. Ma spero tanto che alla fine, di tutti quei gratta e vinci che comprava, quello giusto l’abbia azzeccato davvero.

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