“Sono una ragazza, un albero nel sole
Sono una messaggera che viene dalla terra della speranza
A ogni passo la primavera sboccia attorno a me
E le mura si trasformano in giardini bellissimi…”

La canzone s’intitola Dohktar Astam che in lingua pashtun significa “Io sono una ragazza”. È un coro festoso che intonano le giovani studentesse afghane. L’ho ascoltato per la prima volta 15 anni fa dalle parti di Darulaman Boulevard, vicino allo zoo di Kabul, dentro a un edificio malconcio incastrato in un labirinto di viottoli e macerie. Avevano riaperto la prima scuola per ragazze di tutto l’Afghanistan, una nuova alba dopo gli anni atroci del regime talebano, le donne costrette a casa, la negazione di ogni forma di educazione per le adolescenti, il lavoro duro e la sottomissione sessuale già a dodici anni.

Ricordo il percorso per arrivarci, un rally tra buche sull’asfalto e moncherini di palazzi, con gli autisti impazziti che non volevano assolutamente che ricordassi l’esatto indirizzo della scuola. In circolazione c’erano ancora troppi fanatici per sentirsi al sicuro. Molte ragazze arrivavano a scuola come piccole agenti segrete, bardate sotto abiti maschili di cui si liberavano solo quando si trovavano al riparo da occhi indiscreti.

“Sono una ragazza, un albero nel sole…”

Nel marzo 2021 un decreto della Repubblica Islamica Presidenziale, ha sancito che alle ragazze al di sopra dei 12 anni sia proibito cantare quella canzone in pubblico. La notizia ha destato una lieve perplessità internazionale, ma poi è scivolata via assieme a tutti gli eventi in apparenza tralasciabili. A volte la storia viene avanti a pedate, altre utilizza strategie più sottili e subdole. Da due anni ormai l’Afghanistan si prepara a un ritorno prepotente al suo Medio Evo e i fanatici islamici hanno ripreso il posto di guardia sugli snodi chiave del potere. Dal 1 maggio di quest’anno, da quando cioè il Presidente Americano Joe Biden ha proclamato il completo disimpegno militare a partire dall’11 settembre, i talebani hanno riconquistato il controllo armato di ampie aree dell’Afghanistan. E in giro per strada, specie nelle città periferiche, è sempre più inconsueto incontrare una donna sola.

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Riccardo Romani

Il ritiro americano l’11 settembre è un gesto simbolico, come fu simbolica la riapertura di quella scuola al centro di Kabul. La parte più dolorosa di questa vicenda è ricordare che assieme a quelle giovani, a colloquio con un gruppo di euforiche insegnanti, si provava l’eccitazione delle conquiste insperate. Accanto a quelle bambine si respirava il profumo di una rivoluzione irreversibile. Ma quando si gioca con i simboli, si perde di vista la sostanza e anche ciò che appare intoccabile può venir meno. A cominciare da quella canzone festosa.

Ho mantenuto per anni contatti con una di quelle insegnanti, Masooma, oltre che con il mio traduttore Massud. Brevi missive attraverso Facebook. Frasi incoraggianti dapprima, preghiera di rivedersi poi, infine un lento e inesorabile scivolare nell’incredulità. Più di recente, la paura. Masooma e Massud sono entrambi scomparsi da Facebook ormai da tempo. Di Massud conservo un numero di telefono che suona a vuoto. La paura è un sentimento nazionale in Afghanistan, nulla di nuovo sotto a quel cielo formidabilmente stellato. Ma è lo stupore per la rapidità degli eventi che ha lasciato tutti impietriti.

L’8 maggio scorso un triplo attacco bomba a Kabul, ha lasciato sul terreno 90 cadaveri di giovani studentesse hazare, una minoranza presa di mira da anni dai talebani. È stato il sintomo inequivocabile del male incurabile da cui l’Afghanistan s’illudeva di essere guarito. Scuole che chiudono, ragazzine che vengono rapite, stuprate intimidite.

E mentre il Ministro dell’Educazione Farooq Wardak assicura che non verrà imposto alcun impedimento all’educazione delle ragazze, in quasi tutte le province del Nord Ovest attorno a Sheberghan, le scuole per bambine sono deserte se non distrutte e si parla di almeno 60.000 ragazze che hanno dovuto abbandonare gli studi. Restano ancora aperte solo alcune scuole dell’infanzia. Si narra di decine di ragazzine che mentono sulla loro età per potervi ancora accedere.

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Riccardo Romani

Il disimpegno occidentale arriva dunque nel momento peggiore. E non è che mancassero gli indizi. A maggio del 2020 i talebani – per spiegare bene la loro visione del mondo – rasero al suolo un reparto di maternità a Kabul, uccidendo 20 tra donne e bambine, ferendone un centinaio. Attraverso alcuni amici della comune amica e filmmaker afghana Sonia Nassery Cole, sono entrato in contatto con Khadija, un’operatrice umanitaria che da anni si batte per dare un’educazione alle giovani afghane. Mi racconta che il clima è quello soffocante che respirava negli anni ’90, che ogni giorno una scuola viene chiusa o bruciata dai fanatici ed è già tanto se non appiccano il fuoco quando le ragazze sono ai loro banchi. Khadija solleva un altro problema, le organizzazioni umanitarie internazionale, un polmone decisivo per la sopravvivenza del Paese, hanno perso interesse. Con l’arrivo del Covid le risorse sfuggono dentro a rigagnoli sempre più piccoli. Molti progetti umanitari muoiono.

Non ci sono i talk-show con esperti indignati per i trilioni spesi in una guerra che ha lasciato le cose com’erano. Non ci sono le proteste in strada contro chi ha mandato a morire migliaia di giovani – parecchi italiani – per “difendere i nostri confini” e si ritrova oggi con un cadavere da piangere senza sapere il perché.

La storia a volte viene avanti a pedate, appunto, e sul futuro delle giovani afghane Khadija non sembra per nulla ottimista. Mi ripete la frase che pronunciano le madri di tante ragazze che hanno rinunciato alla scuola:

“Meglio analfabete che sotto terra”.