Tra poco salirò su un aereo. Ho in tasca un biglietto di sola andata per Tel Aviv e sono raggiante: sto finalmente tornando a casa. Parto senza la grande festa che mi ero immaginata, perché quando ho annunciato il trasferimento i miei genitori e i miei amici hanno preferito far finta di niente. Credo siano convinti che finirò per tornare a Parigi prima o poi. Non è così. Il mio addio alla Francia è irrevocabile.

È stata proprio lei a farmi capire di non volermi più. Avevo solo 20 anni quando un terrorista, un giovane francese come me, ha ucciso sette persone, tra cui tre bambini, davanti a una scuola ebraica a Tolosa. Tre anni dopo un altro francese è entrato nel supermercato ebraico Hyper Cacher vicino a casa mia, uccidendo quattro persone e terrorizzando per ore i clienti rifugiati nella cella frigorifera. Ho seguito tutta l’operazione, pietrificata di fronte alla Tv. Ricordo quella giovane donna che è corsa via piangendo: i boccoli stretti in una coda, gli stivaletti gialli, una figura sottile... Potevo essere io.

La situazione ha iniziato a degradarsi durante la mia adolescenza, per le notizie che arrivavano da Gaza. Ne parlavamo in classe, i miei compagni erano d’accordo nel dire che gli israeliani erano tutti assassini e meritavano una punizione. Un ragazzo aveva attaccato sulla lavagna una lista di alimenti da non consumare per boicottare la politica di quello staterello che avevamo difficoltà a piazzare su un planisfero. I miei genitori mi hanno educata come una francese qualsiasi, laica, critica nei confronti del sionismo. Pensavano che mi avrebbero protetta dal male che ci aveva già colpiti: nella nostra famiglia, diverse persone sono morte nei campi di concentramento durante la Shoah.
I miei nonni sono stati degli enfants cachés, bambini obbligati a nascondersi in famiglie non ebraiche per sottrarsi alle leggi razziali. Forse mia madre si è sentita in colpa per avermi trasmesso un’eredità così dolorosa e per questo non mi ha mai spiegato cosa significhi essere ebrei. L’ho capito per caso, durante le vacanze dei miei otto anni, trascorse in una colonia estiva ebraica. Avevo con me delle caramelle gommose alla fragola, le mie preferite, e gli altri bambini mi avevano accusata di essere una miscredente per via della gelatina, che non è kosher. Ero interdetta: non sapevo cosa significasse, a casa non facevamo nemmeno Shabbat. Mi sono vergognata, ma anni più tardi ho trovato il coraggio per fare le domande che avevo dentro. A Sara, una ragazza conosciuta durante un viaggio in Argentina. Sara studiava la Torah e mi ha permesso di far pace con la mia storia. Di accettare che sentissi il bisogno di pregare.

Oggi prego come atto di resistenza, perché a poco a poco delle sentinelle armate sono spuntate di fronte alle sinagoghe e ho cominciato a sentire storie di insulti e di aggressioni antisemite nel cuore di Parigi. Molti miei amici non osavano più uscire con la kippah. Ero convinta che esagerassero, fino al giorno in cui dei ladri si sono introdotti nel mio appartamento. Il poliziotto che è venuto ha notato la mezouzah attaccata alla mia porta e mi ha consigliato di toglierla: secondo lui, quel piccolo cilindro di metallo incita i furti. Mi ha spiegato che in molti sono ancora convinti che gli ebrei, tutti gli ebrei, siano ricchi. In quel momento ho deciso di andarmene. Israele è una terra che aspetta il ritorno di tutti i suoi figli, è per questo che l’alyah (letteralmente, l’ascensione, ndr), cioè l’immigrazione nel Paese, è un diritto costituzionale dal 1950. Il ministero dell’Integrazione concede incentivi a chi ritorna: biglietti aerei, denaro per le spese immediate, più o meno 4mila euro, e un corso di ebraico. L’anno scorso, Israele ha accolto circa 3.400 olim (nuovi immigrati, ndr) dalla Francia. L’anno del Bataclan, le partenze sono state più di 7mila, un record rispetto a quelle del passato, che raramente superavano mille persone. Il ministro della Diaspora ha annunciato che circa 200mila altri francesi desiderano partire. La comunità francese di Tel Aviv è seconda solo a quella russa e possiede scuole, giornali e addirittura una via dedicata. Ho scelto Tel Aviv perché conosco bene la città, la sua energia, le sue spiagge, i suoi locali e soprattutto la sua grande libertà. Quando avevo vent’anni, ho approfittato del Taglit

Birthright Israel, un viaggio alla scoperta del Paese, interamente sovvenzionato dal governo israeliano. Certo, è destabilizzante trovare agenti armati e posti di blocco a ogni angolo di strada, sentire l’allarme che squarcia il cielo ogni volta che entra in funzione la “cupola di ferro”, il sistema che intercetta i missili lanciati dalla striscia di Gaza, dal Libano o dalla Siria, ma paradossalmente mi sento protetta. Mitra e divise sono lì per impedire che qualcosa di brutto possa capitarmi, allora mi dico che è solo una questione di abitudine, che imparerò a conviverci, anche se mio padre, fervente antimilitarista, non accetta che voglia stabilirmi in un Paese in guerra.

Ma non ho l’impressione di scappare.
Prima di partire ho aspettato di diventare obsoleta, è così che dicono al compimento del ventitreesimo anno di età, per il servizio militare obbligatorio. So che Israele non è la terra promessa. Molti espatriati tornano in Francia stritolati da nostalgia e ostacoli. Le condizioni degli immigrati sono difficili: stipendi bassi e costo della vita altissimo, problemi di integrazione per chi non parla ebraico, stato sociale quasi inesistente... Il declassamento è un sacrificio necessario. Ma mi sento pronta. I miei genitori si sono rassegnati, verranno a trovarmi anche se entrambi non mettono piede in Israele da più di trent’anni. Ho promesso che cercherò un appartamento con una stanza in più, per ospitarli quando mi sposerò e diventerò madre, perché oggi so di non poter rinunciare alle mie radici. Lé’haïm: brindo alla vita e al futuro che mi aspetta laggiù.