C’è un documento che le donne della politica stanno rileggendo con molta attenzione in questi giorni, ed è intitolato Linee Programmatiche di lavoro della Commissione d'inchiesta sul femminicidio. Non è scritto in politichese ed è una carta di intenti vera e propria in cui la neonata Commissione di Inchiesta sul Femminicidio ha scritto nero su bianco, in quattro punti precisi già soprannominati Le Quattro P, Prevenire, Perseguire, Proteggere, Politiche, quello che i governi devono mettere in pratica per mettere fine una volta per tutte a uno dei fenomeni italiani più infamanti, quello sulla violenza contro le donne che continua a fare vittime in numero intollerabile, mai sceso dagli anni 40 a oggi. La Commissione di Inchiesta sul Femminicidio, in questa legislatura è stata costituita all’inizio di dicembre 2018 ed è ufficialmente attiva dall’inizio di febbraio. È esistita già nell’ultimo anno del Governo precedente, ma essendo scaduta con la fine della legislatura è stata ricostituita con una legge ad hoc. Per alcuni, ancora oggi, sembra strano che anche se l’omicidio viene universalmente riconosciuto come il più atroce dei delitti, per gestire l’assassinio di una donna ci vogliano misure speciali come la Convenzione di Istanbul, il trattato approvato nel 2011 dal Consiglio dei ministri d’Europa e firmato per noi da Laura Boldrini, un impegno collettivo per la prevenzione della violenza domestica e sulle donne, la protezione delle vittime e la certezza della pena per i colpevoli. Si legge spesso sui social “non esiste il femminicidio, esiste l’omicidio e basta, perché queste distinzioni?”. Chi lo afferma non ha approfondito il problema, purtroppo, e sono in tanti a non percepirlo adeguatamente, sia uomini che donne.

“Il femminicidio affonda le radici in presupposti sociale e culturali, purtroppo, specifici e particolari”, spiega la senatrice Valeria Valente, presidente della Commissione di Inchiesta sul Femminicidio. “Non è una questione emergenziale, sostanzialmente nasce, cresce e si alimenta in un rapporto in cui c’è un profondo squilibrio fra uomo e donna. Nonostante le norme e la parità riconosciuta formalmente, continua a esistere una disparità sostanziale che può sfociare in alcuni casi in una logica di sopraffazione, di dominio, di possesso da parte degli uomini verso le donne. Le battaglie femministe per l’emancipazione, nel secolo scorso e la conquista dei diritti che le donne hanno conseguito, hanno messo in crisi un sistema di relazioni che era ben definito, basato su un equilibrio malsano e sperequato, profondamente ingiusto: l’uomo dominante e la donna succube. Quando tutto questo è stato messo in discussione, gli uomini si sono trovati privati di un pezzo di potere e oggi reagiscono generando anche più violenza di prima perché cercando di riaffermare un modello che è stato sfidato. Il fenomeno esisteva già ma non se ne aveva consapevolezza pubblica e sociale perché era considerato un fatto privato”. La Convenzione di Istanbul ha proprio avuto questo scopo: derubricare la violenza sulle donne da fatto che si attiene alla sfera privata a fatto di interesse pubblico e sociale. La politica se ne deve occupare, e ce lo spiega la senatrice con quattro domande sui quattro punti.

1# Politica. Da un sondaggio di pochi anni fa risultava che per un italiano su tre, la violenza domestica sia una faccenda da risolvere fra le mura domestiche, tra parenti, senza coinvolgere estranei, forze dell’ordine comprese: non è che la politica non se ne sia occupata più di tanto, in passato, per non perdere quei voti?
Non escludo che possa essere accaduto in passato anche per la logica giustificativa del fenomeno, non si voleva mettere il dito in una piaga che si riteneva impopolare. Però circa dal 2009, l’anno del riconoscimento del reato di stalking, fino alla ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013, e poi a seguire, questo non succede più. Questo atteggiamento è stato abbandonato e ha lasciato posto a una presa di coscienza e a una consapevolezza della politica di intervenire e di farsene carico. Altro è poi dire se i risultati sono soddisfacenti, o se gli strumenti che si stanno adottando siano per lo meno sufficienti, ma il paradigma è cambiato; mi sento di dire che la politica ci sta provando, indipendentemente dalle forze in gioco. Magari la differenza sta nella ricetta, che cambia a seconda dello schieramento: da repressiva-punitiva, preferita dalla Lega oppure che investe sul cambiamento della cultura, come quella proposta dal Partito Democratico. Ma non si può dire che ci siano schieramenti che ignorano il problema.

#2 Prevenire. A volte ci si chiede perché, se le insegnati in Italia sono prevalentemente donne, questa cultura sbagliata sia stata portata avanti…
Tante donne nel 900 hanno operato una rivoluzione nel femminile, nelle dinamiche delle famiglie, le donne ormai hanno una funzione pubblica e non solo privata, sono stati stravolti funzioni e stili di vita. Però dobbiamo essere consapevoli che molte donne, così come gli uomini, hanno bisogno di essere preparati alla giusta educazione sentimentale perché se l’uomo pensa di poter esercitare una logica di dominio e di prevaricazione, molte donne in maniera inconsapevole pensano che sia normale assecondare questo pensiero. Ci sono ancora tante adolescenti che pensano sia quasi normale avere un fidanzato ossessivo e geloso, che questo sia un segno di amore. Il problema culturale coinvolge tutti. Moltissime insegnanti sono emancipate e consapevoli ma ce ne sono ancora molte che non hanno ancora preso coscienza. C’è un deficit importante su chi forma gli insegnanti, pensiamo a quanti libri di testo circolano ancora e sono pieni di stereotipi e pregiudizi, ma anche i corsi di formazione degli insegnanti non sono ancora adeguati ad affrontare il problema. Il salto di qualità è stato fatto: ma non sono ancora in atto tutte le misure per risolverlo. A scuola bisogna insegnare agli adolescenti che amore non può essere violenza, dove c’è violenza è un’altra cosa.

#3 Perseguire. Si dice sempre che bisogna denunciare, ma sono tante le donne maltrattate che vengono ancora convinte a non denunciare per non rovinare la vita al compagno, oppure denunciano e non succede nulla, come quel caso recente di una donna uccisa dopo 12 denunce. Cosa bisogna fare?
Questo è sicuramente un nervo scoperto. Non si può fingere che non lo sia e che le misure siano sufficienti. Nel tempo sono state varate tante leggi in più che tutelano maggiormente una donna che denuncia, ma non siamo ancora a un livello di impianto normativo e giudiziario che ci consenta di dire che una donna che denuncia è protetta in maniera adeguata. Non è sufficiente quello che abbiamo, questa è una priorità, altrimenti non siamo nelle condizioni di dire a tante donne di denunciare. Purtroppo, ci sono ancora troppi casi di sovraesposizione successivi alla denuncia che non vengono tutelati sufficientemente. Conosco tanti operatori nei centri antiviolenza che si trovano in difficoltà nel consigliare a una donna di rivolgersi subito alle forze dell’ordine perché non sono poi nelle condizioni di potere garantire loro un’adeguata protezione. Nel Decreto femmincidio è previsto l’allontanamento del maltrattante dalla casa familiare e dai luoghi che frequenta la donna, ma anche l’arresto, le misure cautelari potrebbero essere utilizzate di più e meglio. La flagranza di reato non deve essere necessaria per mettere in atto l’allontanamento: come si fa a prendere in flagranza un uomo che picchia la moglie in casa? La Commissione Femminicidio valuterà anche questo, proponendo delle modifiche sia di sostegno alle forze dell’ordine, sia di mettere a sistema i protocolli che usano, come i Codici Rosa (il protocollo di immediate cure mediche e sostegno psicologico alle vittime, ndr) che sono ancora distinti regione per regione, il Progetto Eva della Polizia, quello Una Stanza Tutta Per Sé dei carabinieri. E poi il sostegno ai centri antiviolenza, un sostegno vero! La donna non deve farsi carico di un processo pesantissimo, pieno di udienze, l’incidente probatorio, le deposizioni, e sottoporsi ancora a verifiche della credibilità della teste. Il rischio, tante volte, in un procedimento basato quasi solo sulla testimonianza della vittima, è che a essere messa sotto processo sia lei. Non si può rischiare che si trovi davanti un giudice a cui non sono stati forniti i mezzi e la preparazione per affrontare questo tipo di processo.

#4 Proteggere. Concludiamo proprio con i centri antiviolenza. Gli operatori che ci lavorano si lamentano che a ogni spending review, i primi a rimetterci sono loro con sottrazione di fondi. Succederà ancora?
No, è necessario sostenerli di più, e per questo è indispensabile cominciare da una verifica per capire quali funzionano davvero, in modo da concentrare le risorse dedicate al loro finanziamento, evitando di sprecarle inutilmente in tanti rivoli.