Del fatto che Tommaso Buscetta sia “diverso” – diverso dagli altri suoi sodali d'imprese mafiose ai quali si accoda nelle foto di rito non senza un certo disagio e l'aria di chi vorrebbe essere altrove – lo si capisce dall'inizio de Il traditore, film di Marco Bellocchio appena arrivato nei cinema, dopo aver sfilato a Cannes 2019, con 13 minuti di applausi. Una diversità che inizia dal completo bianco – Buscetta è l'unico a indossarne uno, nella sequenza festaiola iniziale, dove si firma una tregua nata fragile tra le due diverse anime della mafia in Sicilia, Cosa Nostra e la new wave dei Corleonesi – e prosegue con quella sua reticenza a comandare, pur avendone una naturale attitudine.

La bravura sublime di Bellocchio è quella di non dare a questa diversità un particolare merito, e soprattutto evitando il “santino” intorno alla figura del più noto pentito che la storia giudiziaria italiana abbia conosciuto. Piuttosto, il film sembra scandagliare in un'oscurità profonda, quella dell'anima nera della mafia e di uno dei suoi più “rispettabili” rappresentanti, senza fornire risposte, o schemi narrativi semplicistici, che risolvano tutto nella solita lotta tra buoni e cattivi, entrambi assoluti.

Un film che, nel suo scardinare la mitologia legata al milieu mafioso, va di molto oltre i capolavori cinematografici americani, che di quello stesso mondo subiscono una fascinazione che rasenta l'ossessione clinica, da Il padrino in poi. Ed era anche il momento che fosse un italiano a raccontare – seguendo alla lettera i verbali giudiziari del maxi-processo di Palermo del 1986, quello dove Tommaso Buscetta spiegò nei dettagli l'organizzazione interna di Cosa Nostra – che non ci sono solo due facce della medaglia, ma livelli di profondità dell'animo, che si fanno più incomprensibili e stratificati ogni volta che si cerca di andare più giù, nelle tenebre.

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E per il ruolo di Buscetta, l'unico candidato possibile era Pierfrancesco Favino – attore capace di mantenersi in equilibrio tra la fama nazional-popolare, e le ospitate a Sanremo e i trenini di Capodanno Brigitte Bardot-Bardot, e i film di spessore, con registi amati anche al di fuori dei rassicuranti confini italici. Con quella sua fisicità statica, nerboruta, che sembra inamovibile eppure sempre attraversata da una corrente elettrica sotterranea, ha tradotto nei moti del corpo i dissidi interiori di Don Masino, uomo che sfugge in Svizzera e poi in Brasile pur di non essere coinvolto nei giochi di potere. E proprio per quella sua reticenza al comando, non vuole mai andare oltre il grado di “soldato semplice”, al netto della terminologia utilizzata, quando si parla di lui, passato alla storia, e ai verbali giudiziari, come l'”Eroe dei due mondi”.

La decisione di collaborare – anche se non si definirà mai pentito o collaboratore – nasce dal disprezzo per la svolta autoritaria, cruenta e priva di morale presa da Cosa Nostra sotto la guida dei Corleonesi di Riina. Un'idea malata, perché non esistono mafie “onorevoli”, alla quale si opporrà un giovane Giovanni Falcone, ultimo baluardo, lui, di un'onestà assoluta, senza se e senza ma. Per questo Buscetta accetta, in lunghi colloqui, di spiegargli tutta la struttura logistica di Cosa Nostra, anche se è abbastanza realista da capire che l'unica differenza che correrà tra loro, sarà “chi riuscirà a farsi ammazzare prima”.

Favino costruisce, così, con l'aiuto del regista, il profilo di un criminale anomalo, o almeno molto diverso dagli stereotipi cinematografici ai quali siamo stati abituati: dove Riina, suo acerrimo nemico, indossa polo slabbrate, è sciatto e incurante, e incapace di esprimersi in italiano come un qualunque zio Michele da Avetrana – ed eppure è una bestia sanguinaria ossessionato dall'esercizio del potere al punto da decretare la condanna a morte dei familiari dei suoi nemici, fino al ventesimo grado di parentela, senza risparmiare donne e bambini – Buscetta è elegante, ha un baffo folto e canta in crociera con l'abitudine consumata di un crooner, e parla soprattutto un italiano forbito, complesso. «Anelo al confronto con Calò» dice ai giudici, parlando di Pippo Calò, amico poi divenuto “cassiere” sotto la gestione di Riina.

E fedele alla storia è anche il maxi-processo, con le sue innumerevoli deposizioni e il cubo di cristallo dal quale si scorge, di spalle, il profilo fermo di Buscetta, mentre, come fiere in gabbia, gli imputati dalle celle vomitano improperi incomprensibili fuori dai confini regionali della Sicilia, fanno le corna e fumano sigari. Un circo Barnum sguaiato che invade le aule di Palermo, con i giudici in evidente difficoltà nel trattenere questo folklore che si è trasformato in organizzazione criminale capace di dettar legge.

Il film, molto apprezzato a Cannes, è forse troppo italiano per essere internazionale – e infatti gli inglesi e gli americani ne hanno riconosciuto la qualità ma si sono persi nel mare dei riferimenti e nomi e numeri del processo, un mare che naviga solo chi conosce la geografia e la storia di questo disgraziato Paese – ma è un prodotto cinematografico estremamente necessario in un momento storico, italiano ed europeo, nel quale si cerca, nuovamente, di semplificare la realtà, polarizzandola, distorcendola in un bipolarismo assoluto tra buoni e cattivi, onesti e venduti, amici e nemici. La contemporaneità, ce lo dice Marco Bellocchio, e ce lo ha insegnato la storia, è molto più complessa di così.

Un racconto, quello de Il traditore, che, pur attraversato dall'inizio alla fine da una sottile ricerca psicologica, tradotta soprattutto dagli sguardi di Pierfrancesco Favino, non fa sconti e non regala la beatificazione. Tommaso Buscetta rimane un criminale, che ha tentato di suicidarsi con la stricnina per non farsi estradare in Italia, e che si è macchiato le mani di troppo sangue per aspettarsi l'assoluzione del pubblico, e dei giudici. Ma, a differenza di altri, sembra suggerire il film, è pienamente consapevole delle sue responsabilità nella profondità di quell'orrore. Ed è questo, infine, a renderlo più umano, ma non meno colpevole.

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