Diceva Edgar Allan Poe che “The death of a beautiful woman is unquestionably the most poetical topic in the world” e lo diceva nel 1846, ma se guardiamo alla media delle serie tv crime, è una frase che potrebbe essere stata detta anche ieri. Perché nonostante siano passati 173 anni, l’idea di Poe che una donna morta sia l’incipit ideale di qualsiasi narrativa perdura, immutato, nella mente di chi scrive televisione, per non parlare degli altri media. La disposable woman, ovvero la donna la cui morte o il cui maltrattamento innesca l’indagine e spesso, innesca la rabbia e la sete di vendetta del protagonista (ovviamente maschio), è una costante tale nelle trame investigative da essere diventato un trope così integrato nelle “regole” del genere da diventarci familiare, tanto che non ci rendiamo quanto di quanto sia pervasivo e quanto venga spesso utilizzato appunto come semplice trucchetto narrativo: raramente c’è interesse a raccontare chi sia la disposable woman, perché ridotta a mero innesco dei fatti con tutto il focus della storia spostato prepotentemente sulle reazioni alla sua morte, sul dispiegarsi dell’indagine e sugli effetti che ha sugli uomini intorno a lei. L’eterna fascinazione verso il corpo morto delle donne è negli ultimi anni oggetto di moltissimi studi di critica che ragiona da una prospettiva femminista, e le sue ragioni sono stratificate e complesse. Certamente siamo circondati da vicende di donne morte che non sono mai al centro della loro storia, una tendenza che anche senza intenzione finisce per minare il livello di empatia verso questo tipo di violenza (lo spiega molto bene in un TEDx Talks la scrittrice di true crime Carolyn Murnick), de-personalizzando la vittima e allontanandola dal centro degli eventi raccontati.

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Da Laura Palmer in poi, difficilmente un pilot poliziesco si è aperto senza una bella ragazza in un sacchetto, in una tomba, torturata o piangente in una stanza interrogatori. Spesso la ragazza è senza un’identità o addirittura senza un nome (o sono tante ragazze, come in True Detective), spesso il suo passato è raccontato dall’esterno, filtrato dalla memoria o funzionale all’esperienza altrui (come in Tredici), raramente è la protagonista - un’eccezione è Handmaid’s Tale, che indulge nella violenza sulla sua protagonista ma mette al centro un discorso più ampio - e in genere è giudicata, la sua vita e il suo passato rivoltati come un calzino ad uso e consumo della spettacolarizzazione della routine poliziesca. Cosa indossava, chi frequentava, se si drogava, con chi faceva sesso, quali erano i suoi segreti. Anche la nuova miniserie Netflix Unbelievable comincia con una ragazza che subisce violenza sessuale e sporge denuncia, ma è l’unica cosa che ha in comune con qualsiasi altro crime abbiate mai visto, per molti motivi. Il primo è che la ragazza, Marie Adler (interpretata dalla giovane e bravissima Kaitlyn Dever, già vista in Justified e Booksmart) è la vera protagonista della sua storyline, che la segue non soltanto durante un’investigazione che, come succede ancora troppo spesso, finisce per indagare su di lei e non sul suo torturatore, ma anche nelle conseguenze della violenza stessa e del non essere stata creduta. Il mondo si accanisce su Marie amplificando gli effetti del crimine che ha subito, rendendo la serie probabilmente il più importante racconto televisivo sul trauma legato alla violenza sessuale che abbiate mai visto: brutale, onesto, totalmente schierato dalla parte delle donne e con un’acutezza narrativa amplificata dall’essere ispirata a una storia vera, la serie di stupri con infrazione avvenuta negli stati di Washington e Colorado tra il 2008 e il 2011, raccontata in un articolo del 2015 vincitore del Premio Pulitzer.

Ma la vera rivoluzione del racconto crime arriva con la seconda storyline di Unbelievable, che prende le fila alcuni anni dopo la violenza su Marie, quando la detective Karen Duvall inizia ad indagare su uno stupro e cerca la complicità e l’aiuto della collega Grace Rasmussen, alle prese con un caso molto simile. La serie non fa mistero, anzi evidenzia il più possibile, quanto il punto di vista di due donne sulla vicenda cambi totalmente la prospettiva: l’attenzione dedicata alle vittime, manifestata nel modo di parlare con loro e nell’interessarsi al loro benessere anche al di fuori delle necessità del lavoro, il livello di dedizione e coinvolgimento molto più alto rispetto a quello dei colleghi maschi, frutto di un’empatia tra simili, la testardaggine con cui le due si dedicano a un’indagine che sembra destinata a fallire in assenza di prove del DNA e la caparbietà nel cercare strade e metodi nuovi nel trattare una tipologia di caso spesso indagato con metodi completamente inefficaci e standardizzati, frutto dell’impossibilità di mettersi nei panni della vittima. Aiuta, certamente, che le due detective siano interpretate dalle fantastiche Toni Collette e Merritt Wever (già vista in Godless, western al femminile sempre su Netflix), che sanno trasmettere con grandissima efficacia la gamma di emozioni che va dalla disperazione alla rabbia che assale le protagoniste, poste di fronte alla totale mancanza di strumenti adatti per fare al meglio il proprio lavoro, e offrono il ritratto di due donne caratterialmente agli antipodi ma mai in competizione, focalizzate senza distrazioni sulla volontà di rimediare a un torto macroscopico e al tempo stesso imparare l’una dall’altra per migliorarsi. I ritratti di donne professionalmente eccezionali e che collaborano l’una con l’altra sono, in televisione, forse ancora più rari delle violenze raccontate con empatia e sensibilità e Unbelievable dimostra così la sua natura di progetto sofisticato e in molti sensi, politico: perché la rivoluzione parte anche dalla rappresentazione, e rivoluzionare le regole del crime è un primo passo per avere più storie e più punti di vista su un genere tra i più popolari nella serialità - quindi, giocoforza, sotto gli occhi di tutti.