In queste ultime settimane è stato impossibile sfuggire alle polemiche sul film Joker, che dopo la vittoria al Festival del Cinema di Venezia 2019 e l'arrivo prima sugli schermi americani poi su quelli italiani sembra essere diventato il “film divisivo” per eccellenza, quello che polarizza le opinioni, che si ama o si odia. Va detto, per dovere di cronaca, che questo non è soltanto merito del contenuto del film ma anche e soprattutto del fatto che è stato visto da tantissime persone (anche grazie alle polemiche pre-uscita, che si sa suscitano sempre un'inevitabile curiosità) e che si appoggia alla tradizione di un personaggio, il Joker dell'universo di Batman, che non solo ha 80 anni di storia ma ha sempre avuto un successo incredibile tra il pubblico. È uno dei classici villain che spesso rubano la scena al protagonista: è successo con il Batman di Tim Burton e il Joker con la faccia di Jack Nicholson ed è successo di nuovo con il Batman di Christopher Nolan e il Joker con la faccia del mai abbastanza rimpianto Heath Ledger.

Stavolta il Joker ha la faccia di un altro attore dal talento indiscutibile, Joaquin Phoenix, ma alla regia non c'è un autore riconosciuto bensì Todd Philllips, uno che prima di questo film era famoso per due cose: la saga di Una Notte da Leoni e un documentario sulle violenze nelle confraternite universitarie americane poi risultato una mezza truffa in cui Philllips, per ottenere maggiore effetto drammatico, aveva inserito scene non reali e recitate. Potrebbe sembrare poco importante, ma è un dettaglio fondamentale per giudicare il film che avete avuto, o avrete davanti: Joker è il film di uno che aveva qualcosa dimostrare e la cui carriera, fino ad oggi, non è stata di grande rilevanza. Volendo pensar male, si potrebbe dire che Joker sia studiato a tavolino per essere un successo, compiacendo un pubblico stanco dei film di supereroi pensati per un pubblico tendenzialmente giovane e alla ricerca di qualcosa di più “adulto” e “serio”. Se queste erano le intenzioni, il lavoro in questo senso è ottimamente riuscito. Spingendo sul pedale del citazionismo di un certo cinema anni Settanta e soprattutto della produzione di Martin Scorsese (la trama è praticamente un incrocio tra Taxi Driver e Re Per Una Notte, con tanto di fotografia in stile vintage e stessa identica ambientazione, la New York decadente dei decenni 70 e 80), Phillips confeziona un film che ha poche idee originali a livello realizzativo ma urla fortissimo le sue intenzioni di voler essere autoriale. E che da un punto di vista contenutistico non ha sempre ben chiaro con chi prendersela ma si pone genericamente “contro”, dandosi l’obiettivo di farci vedere quanto il mondo fa schifo e attaccare “il sistema”, confezionando una critica sociale piuttosto vaga e populista ma sicuramente incisiva da un punto di vista emozionale, perché in grado di intercettare (e il successo del film lo dimostra) una sorta di rabbia sotterranea non ben direzionata che cova in ciascuno di noi.

Joker è un film arrabbiato come siamo arrabbiati tutti oggi, ma definirlo “pericoloso”, come molta critica americana ha fatto, sarebbe dargli fin troppo credito. Innanzitutto, se Joker è pericoloso lo è anche I Guerrieri della Notte, o Driller Killer e tutto il cinema da cui la sceneggiatura e la regia pescano a piene mani, spesso rasentando il plagio. Sappiamo benissimo che così non è, anche se all'epoca anche per questi film fu tirato in ballo il rischio emulazione e condannata l'esaltazione della violenza: non esistono film pericolosi, esistono solo film che prendono la strada più corta e scelgono di dare al pubblico ciò che vuole, con esiti variabili da un punto di vista qualitativo. In questo caso è stato intercettato un desiderio collettivo di sfogare la rabbia, anche solo guardando un antieroe che si abbandona ai suoi peggiori istinti trovando una giustificazione nella malattia mentale e nelle ingiustizie che subisce. Intendiamoci, come personaggio Joker è sempre stato matto, perfino più matto che in questo film, ma non aveva mai avuto una origin story in cui la sua follia fosse così insistentemente legata alle colpe di un “sistema” non meglio identificato. Era un personaggio caotico e anarchico il cui scopo principale era fare casino, e non sfogare la propria rabbia repressa contro le ingiustizie subite. Ingiustizie che questo Joker – o meglio, Arthur Fleck – subisce in numero tale, per tutto il film, da risultare persino ridicole e alle quali risponde con violenza e omicidi all'interno di un sottotesto filmico che sembra dirci costantemente “guardate cosa mi hanno fatto fare”. Potremmo discutere il senso di premiare addirittura col Leone D’Oro un film non certo brutto, ma così palesemente calcolato nel compiacere il proprio pubblico, ma il bello del cinema è che ognuno dà valore a quel che meglio crede. Quantomeno però, è innegabile che siamo di fronte a un'operazione decisamente ruffiana.

Il film si regge, prevedibilmente date la carenze di regia e sceneggiatura, su un'interpretazione appassionata e rigorosa di Joaquin Phoenix a cui non si riesce a staccare gli occhi di dosso. O meglio, non ci si riesce e sarebbe comunque impossibile farlo perché nel film esiste soltanto lui: decine e decine di inquadrature ripetute del suo corpo magro e sofferente e dei suoi tic con una colonna sonora musicale d'atmosfera (leggi: urlata) costituiscono il 90% della sostanza del film, che ci ripropone ancora e ancora le stesse tipologie di inquadrature e gli stessi gesti, in una sorta di mania di accumulo che in alcuni spettatori ha prodotto una trance da ammirazione per le doti attoriali e in altri uno spazientito “avevo capito la prima volta, grazie”. Di fatto però, l'interpretazione di Phoenix salva un film che sarebbe altrimenti una banalissima origin story di un villain da fumetto (con una struttura peraltro da manuale dei cinecomic, senza nessun guizzo di originalità) che si appoggia sui più triti cliché dei cattivi da film: il trauma infantile, la frustrazione sociale, il fallimento amoroso, la figura paterna che lo rifiuta.

In tutto questo amore sconfinato per il protagonista, è logico che il film perda di vista non solo come dicevamo il suo quadro social/politico che diventa una macchia confusa sullo sfondo, ma anche gli altri due personaggi significativi: la madre Penny Fleck (interpretata da una sempre eccellente Frances Conroy, una delle star di American Horror Story) e il love interest Sophie Dumond (la brava e lanciatissima, dopo Atlanta, Zazie Beets). Nonostante siano due figure fondamentali per il percorso di Arthur e siano rese più consistenti dal talento delle attrici, Penny e Sophie non hanno per Phillips evidentemente più importanza di un elemento d'arredo: inesistenti nella profondità psicologica perché viste soltanto con l'occhio interno di Arthur/Joker, certamente, ma anche ricettacolo di stereotipi femminili che francamente il mondo dei cinecomic stava cercando di abbattere, non di perpetrare.

Nel caso di Sophie abbiamo una pura proiezione incarnata dei desideri del protagonista prima e una vittima cui non viene data neanche la dignità di una risoluzione dopo. Sarebbe facile obiettare che appunto, essendo una proiezione non è importante sapere come le cose vanno a finire e che ci viene “risparmiata” la violenza, ma è curioso come questo trattamento frettoloso e il ruolo di fantasia maschile tocchi sempre ai personaggi femminili, e non il contrario. Per quanto riguarda Penny, le cose stanno ancora peggio: non soltanto esiste solo per rappresentare un fardello nella vita di Arthur e per incarnare i suoi traumi infantili, ma viene anche convenientemente trasformata lei stessa in villain per scusare l'ennesimo atto di violenza del figlio. Il film è così disinteressato a lei che a un certo punto si scorda che dovrebbe essere malata e invalida e fa dire al suo protagonista che “non prende nessuna medicina” e così come Sophie fluttua in limbo a piacimento della sceneggiatura senza uno straccio di personalità propria né di scopo definito.

In un film così interessato, apparentemente, alle ingiustizie sociali, ci si aspetterebbe che le prime esperienza da raccontare fossero quelle di due madri povere e single, ma a queste donne non viene data neanche la dignità di una singola scena che non sia con Phoenix stesso, dicendoci chiaramente, se già non era ovvio, che in Joker l'unica cosa che importa è l'esperienza e i traumi personali del protagonista ed è con quelli, e quelli soltanto, che lo spettatore dovrebbe identificarsi. Come detto sopra, parlare di questo film come “pericoloso”, a rischio emulazione o addirittura di un inno agli incel sarebbe veramente fuori contesto e andrebbe non solo ben oltre le sue intenzioni, ma anche ben oltre la sua qualità, che è decisamente mediocre. Alla fine, Joker è innocuo soprattutto perché non ha nulla da aggiungere all'argomento di cui parla. È solo la solita storia di un maschio bianco arrabbiato con il mondo fatta passare per storia universale che parla di tutti noi, nonostante tratti con disattenzione e manipolazione la metà di quel “tutti noi”, ovvero i suoi personaggi femminili. A dimostrazione che per fare un bel film, che parli al cuore di tutti, non è sufficiente avere forse una delle migliori performance attoriali degli ultimi cinque anni, perché se intorno a Phoenix metti un film che si limita a rubare qua e là cose che altri hanno fatto meglio e applicarli a una storia già raccontata mille volte, quello che avrai non è un capolavoro. È un ottimo cinecomic per maschi, con un grande attore protagonista. Che noia.