Tutto inizia da una lettera pubblicata sull’ultracentenario giornale americano The Atlantic, che comincia così: “Ho 27 anni, sono sposata da tre mesi con il mio favoloso marito ed è già iniziato l’assalto di domande sulle nostre intenzioni di avere figli. Sembra che tutti siano concentrati sui nostri piani su quando avere un bambino, ogni membro della famiglia, anche alla lontana, ogni collega, amico e conoscente”. A riceverla è Lori Gottlieb, psicoterapeuta osannata negli Stati Uniti, autrice di un gran numero di bestseller (uno è stato tradotto in italiano: Sposalo perché scoprirai che ne vale la pena) che su The Atlantic risponde alle domande dei lettori nella sua rubrica Dear Therapist. Il fatto è che la lettrice di figli non ne vuole.


“Trovo che queste domande siano incredibilmente invasive e maleducate”, prosegue la lettrice, “dato che non è affare di nessuno quello che faccio o non faccio con il mio utero”. E prosegue spiegando la gaffe immensa a cui si espongono, tra l'altro, quelli che la assillano con queste domande, dato che ha sofferto per 10 anni di anoressia e non ha idea, ora che ne è uscita, degli effetti che una gravidanza potrebbe avere sul suo fisico o sul suo equilibrio appena riaggiustato. E no, non deve essere tenuta a confidare a chiunque i suoi motivi, per non essere biasimata. È stufa, stufa di sentirsi rivolgere la stessa domanda da tre mesi. È stufa come tutte le donne che non possono o non vogliono avere figli per scelta, e continuano a sentirsi pressate ad assolvere una funzione biologica a ogni costo. Domanda che, come sappiamo, viene rivolta a una donna (anche single, se ha superato i 30), o a una coppia, ma mai a un uomo solo. Si tratta, poi, di un quesito moderno che difficilmente c’era occasione di rivolgere in passato a una donna sposata (alle nubili, era offensivo), tempi in cui di ciclo mestruale se ne vedeva poco, tanta era la frequenza delle gravidanze. Il fatto è che donne non avevano molta scelta, la loro missione era quella e se si dedicavano ad altro - arte, studi, politica -, passavano per stravaganti.


Quando le grandi guerre hanno portato via gli uomini dalle case, le donne hanno scoperto di sapere fare anche altre cose oltre ai figli e al minestrone, e non sono più tornate indietro. Hanno cercato di avere tutto, figli e carriera, ottenendolo solo quando la responsabilità dei padri non si limita a lanciarli in aria ridendo la domenica mattina, e dove lo Stato accorre in appoggio con nidi e ammortizzatori sociali. Le priorità morali, inoltre, sono per fortuna cambiate. Negli anni 70, se un parto si complicava, capitava di sentire ancora un ostetrico fuori dalla sala parto, chiedere all’uomo se preferisse salvare il nascituro o la madre, come facevano i veterinari con le giumente.



La lettrice di The Atlantic conclude la lettera chiedendo a Lori Gottlieb di suggerirle una risposta educata, ma definitiva, per far sì che tutto questo abbia fine. Che potrebbe essere utile a molte di noi. Gottlieb conviene – repetita iuvant – che la decisione di fare figli o no è strettamente personale ma che nella maggior parte dei casi si tratta di una domanda posta ingenuamente, senza prevedere che possa ferire l’interlocutrice, buttata lì come se si chiedesse “e dove lavori, ora?”. Per le persone più avanti con gli anni, poi, il matrimonio – lo dice la parola stessa – è legato indissolubilmente al concetto di maternità. Poi ci sono quelli che te lo chiedono per uno scopo ben preciso. Potrebbe essere quello di mostrarsi interessati alla tua vita perché vogliono instaurare un’amicizia. Potrebbero essere persone che vorrebbero avere figli e non possono o non riescono ad averne, e per i quali sentire le buone ragioni di chi non ne vuole avere è di aiuto. In questi due casi, una risposta fredda non è la migliore. Un’ulteriore categoria: quelli che vogliono rendersi utili. Magari pensano che tu o tuo marito abbiate problemi di fertilità che hanno avuto anche loro, e vorrebbero farti sapere come li hanno risolti.


In tutti questi casi, la risposta più educata è: “come mai me lo stai chiedendo?”. Se c’è un reale interesse, si avvierà un dialogo costruttivo. Se si tratta di chiacchiere casuali, l’interlocutore si accorgerà che ci sono domande molto più innocenti da fare, nella vita. Lori Gottlieb racconta poi che, dalla sua esperienza professionale, le capita spesso di ascoltare donne che non vogliono figli imbarazzate anche dall’obbligo di giustificare la propria scelta, quando invece un “perché” non viene mai posto a una coppia che li vuole. Nessuno dice mai a una donna che vuole avere dei bambini: “sei sicura della tua scelta? Non hai paura di pentirtene in seguito?”. Fenomeno che, sì, a qualcuno capita di sperimentare. Rispondere educatamente: “perché me lo chiedi?” è quindi il modo migliore, in tutti i casi, di spostare l’attenzione da te al livello di confidenza con l’interlocutore. Solo così siamo noi a ritorcere la questione verso “cosa c’è di serio dietro il tuo interesse per la mia vita privata?”, subendo meno stress. Che è poi la risposta da tenere in tasca anche nel caso di un’altra domanda indiscreta che può capitare prima o poi a tutti: “Come mai vi siete lasciati?”. Sul serio, diamoci un taglio.