Considerata l'importanza che il palinsesto televisivo, anche italiano, accorda al Giorno della Memoria, è davvero sorprendente lo scarsissimo numero di serie che hanno affrontato il tema dei campi di concentramento. Certo, abbiamo molte serie americane e parecchie serie inglesi che hanno raccontato la Seconda Guerra Mondiale (The Pacific, Band of Brothers), abbiamo serie e documentari che raccontano la caccia ai nazisti (Norimberga, con protagonista Alec Baldwin, è una delle più recenti), abbiamo il racconto delle origini del nazismo nel bellissimo Babylon Berlin, la cui terza stagione è appena iniziata e addirittura una distopia come The Man in the High Castle che ipotizza un mondo in cui gli Alleati hanno perso la guerra, ma abbiamo veramente pochissimi show che abbiano raccontato l'esperienza della Shoa focalizzandosi non sui liberatori o sui criminali di guerra ma sull'esperienza delle persone qualunque.

Certo, si tratta di un argomento difficile da trattare ancora oggi, a quasi un secolo di distanza, e dato il pregiudizio che vuole la televisione un media “minore” rispetto al cinema è facile pensare che per raccontare una tragedia così enorme sia stato logico, in passato, utilizzare il media “nobile”, quello che nella vulgata è riservato alle storie davvero importanti. Ma la Shoa è stata anche una storia di gente normale, di piccole vicende a volte dimenticate dalla storiografia più quotata ed è perlomeno curioso pensare che un media come la televisione si sia cimentato così poche volte con queste storie così interessanti e anche, cinicamente, così naturalmente drammatiche e coinvolgenti.

Si tratta di uno dei rari casi in cui la tv italiana rappresenta l'eccezione meritevole: La Guerra è Finita, di Michele Soavi, sta andando in onda sulla RAI proprio in questi giorni e si concentra sulle storie dei sopravvissuti che cercano di tornare alla loro vita nella cornice delle maceria dell'Italia caotica subito dopo la Liberazione. Girata tra Reggio Emilia e Sabbioneta, la serie include nel cast Michele Riondino e Isabella Ragonese insieme ad attori e attrici prevalentemente giovane e sconosciuto, ispirandosi a fatti realmente accaduti. Ma se si va appunto ad esplorare l'universo delle produzioni anglosassoni, si trova una sorprendente mancanza di racconti di questo tipo che non sembra avere ragioni produttive (in fin dei conti Hollywood è ampiamente popolata di persone di origine ebraica in posizioni creative e di potere) e che fa pensare che come l'AIDS, l'Olocausto sia un tema che ancora il mondo non è in grado di elaborare e affrontare pienamente. E dire che la più famosa produzione del genere, che data al 1978, è stata quella Holocaust di NBC – che contava persino Meryl Streep nel cast principale – che non solo ebbe un'enorme risonanza nel mondo ma viene anche ricordata come uno dei fattori più importanti per il cambiamento della mentalità della Germania nei confronti della Shoa. Si tratta di uno di quegli eventi curiosi e fondamentali di cui pochissimo si parla oggi (a testimonianza di quanto, specie in Italia, siano assenti una critica e un'accademia che non solo prendano la serialità televisiva sul serio, ma anche siano in grado di metterne a sistema la profonda interdipendenza con i cambiamenti sociali e culturali): quando nel 1979 la WDR, emittetente della Germania Ovest, decise di mandare in onda Holocaust scatenò in patria un dibattito enorme, ricordato perfino dallo storico Frank Bösch come un elemento chiave capace di scatenare una serie di reazioni a catena nel paese: "Survivors came to the Auschwitz trials and journalists didn't even interview them. No-one cared about the victims. That changed with (the TV series) Holocaust".


Sembra impossibile pensare che una serie televisiva potesse essere più potente dei racconti dei giornali o dei resoconti di Norimberga, eppure prima di Holocaust la Germania non si era mai interroga davvero sulle conseguenze umane della Shoa e fu proprio la televisione a risvegliare le coscienze. Der Spiegel all'epoca definì lo show addirittura “la catarsi di una nazione” e sicuramente ebbe un ruolo fondamentale nelle successive operazioni di elaborazione da parte dei tedeschi di una pagina di storia con cui non avevano ancora fatto i conti, un'elaborazione che per decenni suscitò l'ammirazione del mondo intero. Non che il mondo degli artisti di origine ebraica si sia mai trattenuto dal raccontare le conseguenze emotive e familiari dell'Olocausto sul proprio popolo, anzi persino nella tv contemporanea abbiamo moltissime artiste e artisti che si imbarcano nella difficilissima impresa di riuscire a raccontare cosa vuol dire vivere con i racconti dei sopravvissuti e con il perenne incubo della deportazione che piano piano si è insinuato nel cuore di un popolo intero, influenzandone moltissimo lo stile di vita e lo sguardo sul mondo. Pensiamo a Abbi Jacobson e Ilana Glazer, duo comico dietro a quel piccolo capolavoro che è stato Broad City, che pur all'interno di uno show irriverente e molto contemporaneo ha dedicato moltissimi episodi ad esplorare il rapporto delle persone ebree millenial con un passato difficile da capire ma così ingombrante. Pensiamo alla tradizione della stand up comedy ebraica, da Lenny Bruce in poi, rievocata in The Marvelous Mrs. Maisel, che fa i conti molto spesso con le influenze culturali di una Shoa che negli anni Cinquanta in cui è ambientata la serie era al tempo stesso vicinissima ma lontana per chi era nato e cresciuto in America. La stessa Glazer, nel suo ultimo stand up disponibile su Amazon, fa un racconto esilarante e surreale dell'educazione alla scuola ebraica e di quanto lo spettro della persecuzione sia vivo e soprattutto venga tenuto vivo all'interno della comunità, suscitando nei più giovani reazioni spesso contraddittorie.

L'esempio più importante è sicuramente Transparent di Jill Soloway, esemplare nel trattare il ruolo del trauma collettivo nelle vite dei singoli attraverso la storia di una famiglia ebrea e intrecciandola ai traumi personali, legati non solo all'esplorazione della propria identità di genere ma indissolubilmente legati alla sensazione di eccezionalità e tristezza, di paura e di orgoglio comunitario, che il ricordo dell'Olocausto tiene vivo nella cultura ebraica. Non a caso il musical finale di Transparent si conclude con un discusso numero musicale dal titolo Joyocaust, che mette in discussione il valore del lutto legato alla Shoa e invita a uscire dalle gabbie della tradizione per trovare una propria strada. Un tema che non dovrebbe stupire dati i discorsi fatti dalla serie per tutto il suo corso, di messa in dialogo delle gabbie del patriarcato ma anche del concetto della famiglia tradizionale, ma che ha suscitato moltissime polemiche anche all'interno della comunità ebraica.

A dimostrazione che il tema dell'Olocausto è tutt'altro che elaborato quanto dovrebbe essere lo dimostrano i rigurgiti che vediamo sbocciare nella politica contemporanea, persino nella civile Germania in cui alla notizia che la tv tedesca avrebbe rimandato in onda Holocaust, il partito della destra alternativa tedesco (AfD) si è sentito in diritto di commentare che “è tempo di guardare avanti e tirare una linea sotto questa cultura della commemorazione”. È forse questa una prova lampante di quanto dell'Olocausto non si è parlato abbastanza? E che mai, come oggi c'è bisogno di parlarne ancora, sempre di più.