Può capitare, durante l’emergenza sanitaria da covid-19, di ritrovarsi nell'occhio del ciclone, cioè a Bergamo. Ma pensa se addirittura sei nella pupilla, del ciclone, cioè in 23 metri quadrati di casa (escluso lo studio di 60), lontano dall'appartamento che condividevi fino a un minuto prima con la tua fidanzata. Allora che fai? Trovi un modo per sfangarla.

Roberto Giussani, fotografo e giornalista, viveva insieme a Sara Agostinelli. Ma un giorno di qualche settimana fa, i primissimi di marzo, a lei è venuta la febbre, e anche se non ha potuto fare il tampone hanno saputo che era il coronavirus, perché intorno un sacco di amici e parenti erano malati, e sorvoliamo sulle morti.

«Ci siamo guardati in faccia per decidere se stare insieme oppure se uno dei due avrebbe provato a lavorare, andare avanti. Abbiamo deciso di separarci e sono andato a vivere nella mia casina, dove stavo prima di conoscere Sara».

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Roberto Giussani

Dopo la quarantena precauzionale, Roberto ha deciso di far fruttare il suo tesserino da professonista e le sue escursioni per fare la spesa: ha iniziato a scattare col cellulare la Bergamo che non aveva mai visto, perché così non l’avrebbe vista più. Mille e un deserto urbano che poi ha messo sulla sua pagina Facebook, a disposizione degli amici.

«La prima volta che ho tirato fuori il cellulare è stato quando dovevo fare un acquisto e ho scoperto che era chiuso il centro commerciale. Perché oggi puoi chiudere le chiese, ma il centro commerciale con il suo parcheggio gratuito – mentre quello dell’ospedale lo paghi – è l’ultimo baluardo amichevole della vita di città. Ed era crollato. Ho usato la fotocamera del cellulare, come una snapshot di quando ero piccolo, e con quella poi non mi sono più fermato».

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Roberto Giussani

Senza toccare niente e nessuno, senza parlare, si è mosso a piedi macinando chilometri, anche lungo le statali vuote. Svincoli, come quello per Alzano Lombardo, dove la fila di macchine era stata ininterrotta sempre, e che improvvisamente diventavano anguille lisce di cemento e inerti. «25 anni di professione a cercare il soggetto, a riempire l’immagine con questo protagonista che deve avere il suo peso, e improvvisamente ti trovi in giro a fotografare il vuoto, che poi è il nuovo soggetto».

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Ne è nato quello che definisce «un diario per immagini incompleto e totalmente zoppo che sta funzionando, oltre che a documentare, come terapia». Forse non solo per Roberto, un signore gli ha scritto per dirgli che le sue foto gli hanno fatto capire che aveva anche lui bisogno di elaborare quel vuoto, e allora si è messo lì, se ne è lasciato sopraffare e ci ha scritto su una canzone.

Ma torniamo a Sara. Come sta? Meglio, però ormai sono cinque settimane che è in ballo e proprio oggi ha avuto una ricaduta con la febbre, infatti ha chiesto che vengano a farle una lastra a casa. «È lì, langue. Cerca di dare un senso alla giornata. Il nostro rapporto d’amore nelle ultime cinque settimane è stato un rapporto di soglia».

Un po’ di senso prova a darglielo lui, ogni due o tre giorni fa un salto da lei con la schiscetta dei piatti che prepara per sé: in doppia porzione, apposta. «È una sciocchezza ma mi rende felice». Salta su un bus senza toccare le maniglie, prenota la fermata col gomito, salta giù e sale tre rampe di scale. Da Sara arriva sempre col fiatone. Poi la ritualità inizia.

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«Lascio le mie cose in una sorta di quarantena intermedia, una zona filtro. Lei le sistema solo coi guanti per non infettare nulla, poi si nutre». Nel balcone c’è una sedia pieghevole che lei non tocca, ma solo Roberto. Che ogni volta la apre, appoggia le sue cose, disinfetta le mani, si siede. Lei si siede dall’altra parte dell’uscio, a sei metri di distanza, sulla sua poltroncina. E chiacchierano. Ma di cosa? Che differenza c’è a parlarsi da lontano, con tanto spazio e un virus tra uno e l’altro?

«Parlarsi non è più una cosa normale, è un’occasione da non sprecare. Non è come la domenica mattina insieme, quando avevamo tutta la giornata davanti e potevamo anche rimandare. Devi utilizzare il tempo a disposizione e annullare lo spazio che ci divide fisicamente e ci pesa tantissimo.

«Distanti sei metri, l’uscio aperto, lei con la coperta sulle spalle e io vestito da esterni, cerchiamo di ottimizzare. Non si litiga. Non ci sono intoppi perché non ce li possiamo permettere, sono lussi da tempi di pace».

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Esiste una gerarchia della chiacchiera, in una situazione del genere. In cima alla lista c’è “come stai”, naturalmente, e poi si passano in rassegna gli affetti, che ne è di tizio e caio? Sara che sta tutto il giorno sui social e al telefono, paradossalmente dà a Roberto notizie da fuori. Lui a lei quelle del suo, di fuori: che è più una questione di sensazioni, scene rubate per strada, l’energia che ha respirato.

«Ci si guarda in faccia e se uno dei due ha bisogno di uno sprint si parte con una battuta, uno scherzo, una spigolatura da coronavirus per depistare l’affaticamento. Per il resto si veleggia a vista. Senza forzature, ma c’è sempre una dolcezza di fondo che ci concediamo».

E intanto, intorno, di settimana in settimana, la quarantena cambia, si trasforma, si muove in avanti. «I primi giorni il cielo era plumbeo, era tutto grigio, la gente era pochissima e si respirava un’atmosfera post apocalittica. Poi è tornata la primavera. Ha riempito il vuoto in modo sconvolgente. Al tramonto ci sono momenti struggenti di questa stagione che nessuno si sta godendo. È come se il sorriso più bello del mondo scoccasse inosservato». Ma prima di quel momento, di giorno, si respira più fiducia e più speranza. In un nuovo vuoto, questa volta sonoro, perché adesso hanno silenziato le sirene. «Meno male, perché sirene e uccellini che cinguettano mescolati insieme erano uno shock troppo violento da sopportare».

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