Quando finalmente ne saremo fuori, sarà soprattutto grazie a loro, donne e uomini che, in prima fila, hanno combattuto nelle corsie. Facendo l’impossibile per riaccendere la speranza e addolcire la solitudine dei malati, anche solo con un gesto. Questi sono i medici e gli infermieri dell’ospedale San Salvatore di Pesaro, ritratti alla fine del turno di lavoro. Non dimentichiamoci di loro e di quelli che, ovunque nel mondo, lottano per vincere questa guerra impari.

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Alberto Giuliani

Francesca Palumbo, infermiera di terapia intensiva.
«A fine turno scappo a rinchiudermi in casa, sperando di lasciare tutto fuori dalla porta. Invece i volti sofferenti dei miei pazienti sono lì a fissarmi, le voci dei parenti risuonano nella mia testa. Sapevo di aver scelto un lavoro che sbatte in faccia il dolore, ma non ero preparata a questo, a un male che devasta il cuore più che il viso. Ripenso alle mani dei pazienti che mentre li intubo stringono la mia. Cercano coraggio, per affrontare la paura. Senza sapere quanto coraggio trovi io in quel loro gesto. Stringo i denti, guardo i miei colleghi. E mi dico che andrà tutto bene, perché io sono forte».

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Giulio Mensi, medico anestesista.
«È la mancanza di prospettiva il primo sentimento; attorno a noi le vite si arrestano con innaturale frequenza, e dietro quelle scarne note anagrafiche sappiamo bene che ci sono nonni, papà, mamme, amici, amanti, affetti e allora è meglio che non ci pensiamo troppo, anche a costo di allenare quel cinismo che non pensavamo di avere. Basta però una lastra del torace un po’ meno bianca della precedente, un paziente a cui si possono ridurre i farmaci, per infrangere la disperazione. Dobbiamo pensare alla vita che prosegue, anche davanti al dolore dei tanti che si stanno fermando».

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Cinzia Buttiglione, infermiera di terapia intensiva.
«È stato impressionante entrare nel mio reparto e vederlo stravolto. Le cose di ogni giorno sparite, sostituite da una distesa di letti e pazienti intubati. Sembra un incubo, che torna ogni giorno e mi tiene sveglia ogni notte. Io e i miei colleghi siamo stremati, sfiniti dal carico di lavoro e dai dispositivi di protezione che indossiamo. Facciamo del nostro meglio, ma non basta. Vediamo morire le persone in solitudine, senza il conforto dei familiari. Non dovrebbe succedere mai, in questa storia accade sempre. Lottiamo insieme a ogni paziente, ma troppo spesso ne usciamo sconfitti entrambi».

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Martina Turiani, infermiera di terapia intensiva.
«Ci sentiamo soffocare sotto quelle mascherine che indossiamo per tutto il turno, senza soste. Senza bere per non dover andare in bagno. Ma teniamo duro. A molti pazienti abbiamo fatto una promessa prima di addormentarli per l’intubazione: che li avremmo fatti guarire, che ci saremmo presi cura di loro, che li avremmo risvegliati e che li avremmo fatti tornare a casa dalle proprie famiglie. Perché molti di loro sono padri, nonni, mariti. Quegli occhi impauriti rimangono nella mente e sono il motore che ci fa combattere a ogni turno. Non ci fermeremo mai».

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Federico Paolin, specializzando in terapia intensiva e anestesia.
«Noi medici non siamo eroi, come in questi giorni ci sentiamo spesso chiamare. Ma ci piacerebbe che un po’ della riconoscenza di oggi restasse. La nostra dedizione alla vostra salute non è cambiata, e non cambierà. La cosa che più mi spaventa è che persone a me care possano ammalarsi. Mi fa sentire impotente non potermi prendere cura dei miei genitori, o non potergli essere vicino. Durante le giornate alla fatica fisica si aggiunge quella emotiva. E le parole di sostegno alle famiglie che contano su di noi si scontrano con la consapevolezza dei limiti della medicina».

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Annalisa Silvestri, medico anestesista.
«Ho paura, come tutti. Ma non voglio che vinca. Allora lotto e non sento più neanche la stanchezza: in questo momento il mio lavoro ha più senso che mai. Sono sempre nel mio reparto con i pensieri, vicina ai miei pazienti. Giorno e notte. Prima di addormentarli e intubarli, faccio fare una telefonata a un parente. Un saluto, per dirsi che andrà tutto bene. Ma non è così. Allora succede che i parenti in lacrime ci chiedano di avvicinarci al loro familiare, di accarezzarlo e dirgli - anche se non può sentire - che l’hanno amato, che a loro mancherà. Questo è l’ultimo saluto che portiamo ogni giorno».

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Vincenzo siciliano, infermiere di terapia intensiva.
«Ho sempre lavorato nei reparti di emergenza, contro la Sars, l’H1N1 o accogliendo vittime di radiazioni. Ma nulla è paragonabile a quello che sto vivendo in questi giorni. Questo virus sembra invincibile. Avanza silenzioso seminando paura e morte, senza alcuno sforzo. È una guerra impari. Noi siamo al collasso e lui, implacabile, continua a terrorizzare lo sguardo delle sue vittime, a tagliargli il fiato fino a soffocarli. È un’arma perfetta, e ha già vinto la sua guerra, per il solo fatto di esistere».