Paolo Conte entra in palcoscenico con una faccia che sembra una torta di nozze lasciata sotto la pioggia, e l’andatura «La mia stanchezza, la mia guittezza» di uno che ha visto tutto, inventato tutto, fatto credere tutto a tutti i pubblici del mondo.
Due ore dopo, uscirà dal palcoscenico dopo il più corto dei bis (Via con me, due minuti e venti) e, per sedare l’acclamante platea dell’Olympia che vorrebbe tenerlo lì chissà quanto ancora, si affaccerà dal sipario che neppure ha fatto aprire e farà il gesto di tagliarsi la gola. Il tutto senza mai sembrare uno stronzo, ma solo un gentiluomo di saputa mollezza, che vi ha dato il concerto che volevate ma se ora lo lasciate tornare a casa è più contento. Un’ora dopo, a specifica domanda «Parigi o Asti?», il più cosmopolita dei provinciali dirà «Casa. Brodino. Copertina sulle gambe. Pensionati di tutto il mondo, unitevi». Non è una posa: lo so perché sei ore prima abbiamo cenato, in teatro, con una minestrina; e lo so anche perché conosco le sue canzoni, quei mondi che ha inventato immaginandoli, mica vedendoli. Come Salgari, direte voi. Io non gliel’ho potuto dire perché ci eravamo fatti una promessa, anni fa: tutte le interviste a Paolo Conte sembrano esami col professore più stimato dell’università, sono performance in cui chi fa le domande smania per apparirgli intelligente; avevo promesso che non avrei fatto neanche una domanda intelligente, figuriamoci citazioni (quella della torta di nozze è di Auden, ma non fate la spia).

La principale tentazione di domanda colta è stata nel momento in cui mi sono accorta che Paolo Conte non ha nessuna intenzione d’essere così banale da dirti di sé, se uno inventa mondi non è mica per farti la cronaca del proprio tinello (in una sua canzone è marrón: qualunque istantanea d’un vero tinello non avrebbe la stessa potenza evocativa).

C'è stato un attimo in cui stavo per chiedergli se anche per lui «io è un altro». Non l’ho fatto. Per non violare la promessa, e per non essere così didascalica da citare Rimbaud a Parigi. (Lasciatemi tornare didascalica, cedere e dirvi che era brutto tempo e la città era piena di manifestazioni, e a un certo punto ho pensato che «tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia e Francia», come in Parigi, e «i francesi che s’incazzano», come in Bartali, e insomma se sei un inventore di mondi interi in tre minuti poi va così: che il mondo s’adegua ai tuoi versi per intere giornate).
Non c’è un articolo su Paolo Conte che non racconti che, decenni e vite fa, faceva l’avvocato. Come sia stato possibile è un mistero, provo anche a esporgli la mia tesi su Parole d’amore scritte a macchina - canzone che teorizza che il mestiere del divorzista sia dissimulare lettere d’amore: non è forse lo stesso mestiere del cantautore? - ma non mi asseconda: «No, io proprio vedevo il foglio protocollo, bollato, macchina da scrivere, quei caratteri lì. Se era autobiografica, era autobiografia della mia vita da avvocato» (la stessa autobiografia che racconta d’aver messo in La ricostruzione del Mocambo: «Sono il curatore fallimentare che a quel disgraziato offre il caffè»).

Faceva l’avvocato sebbene, fin da piccolo, si comportasse da musicista: «Ho vissuto da bambino, durante la guerra, un bel periodo in una tenuta in campagna di mio nonno, che mi è rimasta ancora adesso come un’idea di paradiso. La prima passione musicale mi è venuta fuori quando mi mettevo su un poggio in alto ad ascoltare: sotto, nel campo lì vicino, aravano con un trattore. Il trattore faceva tutto il perimetro, e man mano che si avvicinava agli angoli emetteva dei suoni diversi, sentivi proprio il ferro, poi magari quando si allontanava faceva una specie di muggito, e questo mi affascinava da morire, stavo lì due ore, e dentro ci sentivo l’essenza della musica».

Lo racconta come il suo primo ricordo, anche se non l’unico, d’infanzia legato alla musica: «Ho avuto due importanti cadute da cavallo. A dondolo. Mi han trovato in uno stato di estasi, caduto da cavallo davanti alla radio, una volta trasmetteva un disco di Johnny Dodds, un artista degli anni Venti, e un’altra volta un pezzo di Verdi, sono andato un po’ in trance».
Aveva otto anni quando finì la Seconda guerra mondiale, ne ricorda il telefono: «Avevamo una cameriera di un paesino che fu raso al suolo, aveva cinque fratelli partigiani, ogni tanto arrivava una telefonata da una vicina di casa, è morto questo tuo fratello, mi ricordo le voci, ha sofferto, dove l’hanno colpito»; e un’alba più allegra: «Un mattino alle cinque mia madre ha preso me e mio fratello e ci ha portati alla finestra a guardare sotto i tedeschi che se ne andavano. Ho sentito anche mia madre dire: Bei ragazzi. Aveva ragione». Ricorda gli aerei bassi, il fumo, il grigiore. Tutta roba che nelle sue canzoni non c’è.

Ha inventato un mondo in cui esiste solo il bello, non c’è bisogno di dimostrarsi impegnati crogiolandosi nell’orrore. «Non ho mai ceduto alla tentazione, l’ho presa in considerazione per un attimo perché sentivo i cantautori, poi ho detto: guarda, no. Stiamo nella favola». C’è Dal loggione, dove lui va a spiare a teatro l’amante che l’ha lasciato; c’è Sotto le stelle del jazz, in cui le donne mica la capiscono, quella musica che piace ai maschi; c’è La donna d’inverno, che non ve la riassumo perché ogni parola dovete delibarla (andate ad ascoltarla e poi tornate a leggere); e poi c’è un repertorio di specialità contiane ai confini tra il flirt e l’insulto (la mia preferita è «C’è stato un attimo che tu mi sei sembrata niente», da Dancing).

Tutta roba che oggi non si potrebbe scrivere, incidere, cantare senza sentirsi accusare di sessismo, stalking, crimini di guerra. «Io non ci ho mai pensato, me ne son sempre fregato. Son passato indenne in mezzo al femminismo, e allora c’era anche un po’ di critica ai maschi, però in quei periodi là ce l’ho fatta». Adesso può cantarle perché sono canzoni d’epoca e non più processabili? «Spero ci sia già stata un’amnistia e casomai ci sia anche la prescrizione. Viviamo in un momento molto cretino».
Discutiamo della giusta definizione, “politicamente corretto” non lo sembra, visto che i politici dicono qualunque bestialità e a sterilizzare il linguaggio dovrebbero invece es- sere cantanti e romanzieri e sceneggiatori. «È una forma di perbenismo?», chiede. «Non sono assolutamente aggiornato su quello che scrivono oggi questi giovani cantautori: stanno tutti attentissimi o si permettono qualcosa?», mi chiede, e poi «Ma chi è che gli dice “non devi scrivere così”?», e a quel punto dovrei rispondergli «i social network», ma mi vergogno. E gli chiedo se abbia un’idea di perché il momento sia così cretino. «Nella mia ignoranza cerco di capire: quanto c’è di illuministico nei tempi attuali? Può essere che sia questo, qualcosa che somigli all’illuminismo, epoca di certezze e non di dubbi. Io sono amante dei dubbi». E dire che siamo entrati negli anni Venti: quelli del Novecento sono l’epoca che più gli è piaciuto raccontare. Sbuffa: degli anni Venti la gente conosce solo i cliché, «vedono la donna vestita col calicò che balla il charleston, le frange, le vecchie macchine, non so se captano lo spirito rivoluzionario artistico che c’era, c’è anche molta ignoranza». Specialmente sul jazz, del quale rimprovera agli americani d’aver tramandato una figurina sfigurata: «L’improvvisazione assoluta, ma va’ là, non è vero, la musica si scriveva, era tutto molto ben organizzato»
Due anni fa Paolo Conte ha festeggiato i cinquant’anni di Azzurro, che per il grande pubblico è una canzone di Adriano Celentano, perché allora lui scriveva per altri.

«Non avevo la voce da cantante, non l’ho mai avuta», finché scattò la sindrome per cui Billy Wilder, stufo di vedersi storpiare le sceneggiature, divenne regista: «Nelle canzoni come me le cantavano gli altri, sempre un po’ per colpa degli arrangiatori, c’era qualche tradimento della mia scrittura. Un autore è geloso di quello che ha scritto: anche di una sfumatura, di una mezza nota, di un ritmo un po’ più veloce o un po’ più lento di come l’hai pensato». Gli chiedo se sia pentito, d’essersi messo a cantare in proprio, di stare in giro per i teatri del mondo invece che sotto la coperta ad Asti. Sorride. Ci pensa. «Ma no, tutto sommato è andata bene. È andata più che bene». Sparring partner, che scrisse quando aveva 47 anni, a un certo punto fa: «Avrà più di quarant’anni e certi applausi, ormai, son dovuti per amore». Si sentiva più vecchio allora di adesso? «Forse sì. A quaranta c’è un giro di boa. Forse nelle canzoni ho fissato il quarantennio come il momento in cui invecchi, ti perdi una certa selvatichezza che c’era prima». Selvatichezza è una parola bellissima, di quando i parolieri sapevano usare le parole. Gli chiedo come mai quelli d’oggi siano così scarsi. «Senza offendere nessuno, sono decisamente più ignoranti di noi». Domando se non sia strano, hanno intere enciclopedie nel telefono, e lui individua proprio lì il problema: «La cultura è quella che non hai mai veramente avuto a portata di mano. Devi sentire che ti stai aiutando con un po’ di materiale elevato rispetto a te. Adesso...». Fa il gesto di chi smanetta sul telefono, pigia, striscia, «ed ecco la definizione. E poi quella cosa trovata lì ti sembra anche di conoscerla». (Un’ora dopo mi dirà che ogni tanto si chiede «Sono io il trombone che rimpiange le cose vecchie? Ma no, era proprio meglio prima», e io annuirò fino a slogarmi il collo). Mollezza saputa, sprezzatura fitzgeraldiana. Quella che gli fa dire che le mille lire di Una giornata al mare non sono una cifra indicativa, servono «solo per la rima. Ma faceva così anche Dante Alighieri, eh». È più educato disinteresse, si capisce parlando di qualche equivoco lessicale, il soggetto d’una frase in Sotto le stelle del jazz, un verbo forse della prima persona o forse della terza in La donna d’inverno: quelle ambiguità ce le infila apposta per far accapigliare le fan? «Nel momento in cui scrivo non m’interessate», risponde, ed è la più contiana delle risposte, un insulto impeccabilmente cortese.

Quell’übercontismo lì torna quando gli chiedo se abbia mai pensato di cantare un pezzo altrui, e dice «Ma figuriamoci se mi metto a rovinarli con la voce che ho»; o quando domando se ci sia una canzone altrui che gli piacerebbe aver scritto, e dice «una marea. Ma l’amore no. Tutto Gershwin. Tutto Irving Berlin». Non falsa modestia, ma la saputa mollezza di chi sa che tornerai in albergo e penserai che, diamine, è vero: Cheek to cheek potrebbe essere una canzone di Paolo Conte. Di chi trova superfluo parlare, in concerto: «Un po’ l’ho imparato da Aznavour, mi piaceva enormemente: addirittura segava a metà gli applausi e partiva con un altro pezzo, non perdeva il ritmo dello spettacolo. E poi mi sembra un po’ puerile spiegare al pubblico la canzone: o la capisci o non la capisci, entraci dentro e acchiappala». Gli dico che è vero, è scemissimo spiegare le opere, che poi è quel che si chiede di fare agli artisti nelle interviste. «E quindi, cosa stiamo qui a fare?».