Si parla molto di Taiwan e della sua presidente Tsai Ing-wen, in questi giorni in cui ci stiamo riappropriando di argomenti lasciati in sospeso per quasi tre mesi, anche se sono ancora, inevitabilmente, correlati al Coronavirus. Con l’apertura dell’Assemblea Mondiale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, la prima post-pandemia di Covid 19, si è parlato molto dell’assenza di Taiwan, anche se in genere è solo una osservatrice. La causa: le pressioni della Cina, che non gradisce legittimazioni dell’esistenza di questo stato de facto, che chiama «provincia separatista di Taiwan». La Cina, che è uno dei cinque membri permanenti dell’Onu ha sempre esercitato il suo veto con gli altri quattro impedendo il riconoscimento internazionale. In questa occasione gli Usa, e non solo, hanno chiesto che Taiwan partecipasse per portare il prezioso racconto di come sia riuscita ad arginare il contagio, riducendolo a poche centinaia di casi e appena sette decessi su tutto il territorio. Ma non c’è stato niente da fare. È anche spuntata la polemica mediatica internazionale che mostra i membri dello staff di Trump indossare mascherine su cui, con un potente teleobiettivo, si legge in piccolissimi caratteri stampati su un lato “Made in Taiwan”. Ipotizzandone un utilizzo più diplomatico che sanitario.

Che gli Stati Uniti stiano stringendo importanti accordi commerciali con Taiwan non è un mistero. Che Taiwan abbia fatto dono agli Usa di molte mascherine, per cementare questi progetti, idem. Per fare un esempio, la Taiwan Semiconductor Manufacturing, leader mondiale della produzione di chip, aprirà una delle sue fabbriche in Arizona, dando agli operai americani molti posti di lavoro che il presidente Trump potrà rivendicare come un merito in campagna elettorale (?). Come fa notare anche Atlantic, mentre la Cina sta ampliando la sua cerchia di contatti diplomatici offrendo assistenza sanitaria e finanziaria ai paesi colpiti duramente dal Coronavirus, Taiwan si sta proponendo come lo Stato che ha tenuto sotto controllo il virus e che merita un riconoscimento della sua esistenza proprio perché affidabile e democratico. E al centro di questa strategia diplomatica c’è la prima donna presidente taiwanese: Tsai Ing-wen.

taiwans opposition presidential candidate tsai ing wen gestures while addressing supporters at a campaign rally in the central nantou county on january 9, 2012 tsai is challenging incumbent ma ying jeou on the january 14 vote in her bid to become taiwans first female president afp photopatrick lin photo credit should read patrick linafp via getty imagespinterest
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Tsai Ing-weng


Nata il 31 agosto del 1953, Tsai Ing-wen è stata eletta la prima volta il 20 maggio 2016, entrando subito nella classifica delle 100 persone più influenti del mondo secondo Time. Le biografie delle donne politiche orientali non indulgono mai molto nella loro vita privata, ma di lei si sa qualcosa di più. Ad esempio, che è nata in un villaggio costiero nel sud di Taiwan e che dopo di lei i genitori, il padre di etnia Hakka e la madre taiwanese, hanno avuto altri dieci figli. Tsai si è trasferita nella capitale Taipei a 11 anni ed è stata spinta dai genitori a studiare, e molto. Ma tra tutti i suoi fratelli, era quella che prendeva i voti più bassi e i suoi genitori erano preoccupati per il suo futuro. Alla fine è riuscita ad arrivare all’università. All'inizio voleva studiare Storia e Archeologia, poi ha cambiato idea e si è iscritta a Giurisprudenza e Commercio internazionale alla National Taiwan University. Dopo la laurea, non con voti altissimi, è diventata una "secchiona". Ha preso una serie di specializzazioni (ha conseguito anche un dottorato alla London School of Economics and Political Science nel 1984), è diventata professoressa e ha insegnato legge alla Soochow University School of Law e alla National Chengchi University. Nel 1993, quando è ancora indipendente, senza un partito, è stata scelta come negoziatrice per seguire l'adesione di Taiwan all'Organizzazione mondiale del commercio, e poi ha prestato servizio nel Consiglio di sicurezza nazionale come consigliere dell'ex presidente Lee Teng-hui.

Nel 2004 è entrata a far parte del Democratic Progressive Party e la sua escalation è stata fulminante e con molte componenti. La sua etnia mista è stata il primo dettaglio che l'ha aiutata a farsi amare da un’ampia fetta dell’elettorato. Altri elementi a favore sono stati il suo stile e il suo portamento, così diversi dalla vecchia guardia del partito: Tsai è timida. In un paese abituato a politici molto aggressivi, la sua pacatezza, la sua sincerità oltre alle capacità oratorie in cui non eccelle, hanno bucato gli schermi. Poi i contenuti del suo programma elettorale, ricco di proposte coraggiose basate su diritti civili e ambiente. Infine, le fotografie con i sui due amati gatti hanno conquistato molti cuori di giovani elettori. Un mix che ha generato quel quid in più le ha permesso di attirare l’interesse degli elettori più giovani, inducendoli ad andare alle urne. Nel 2012 il partito l’ha proposta già come candidata per la presidenza, ma non ce l’ha fatta. Per riuscire dovrà attendere il turno successivo, e con la vittoria si è aggiudicata una serie di record: prima donna eletta alla presidenza di Taiwan, primo presidente non sposato, primo a non aver mai ricoperto un posto esecutivo eletto prima della presidenza e il primo a non aver precedentemente ricoperto il ruolo di Sindaco di Taipei. Se Tsai è stata riconfermata quest’anno è proprio perché nei quattro precedenti ha messo in atto le riforme che aveva promesso in campagna elettorale. Ad esempio, si è data da fare per rendere Taiwan la prima società asiatica in cui il matrimonio gay è legale. La comunità internazionale l’ha applaudita ma gli oppositori le hanno reso la vita molto difficile, anche personale, mettendola in difficoltà anche con la famiglia. Le sue politiche sull’ambiente, invece, hanno messo a dura prova la fiducia del suo elettorato perché la rigidità con cui sta imponendo l’adozione di energie alternative e l’abbandono degli idrocarburi ha rischiato di lasciare il Paese a piedi.

Si pensava di non ricandidarla più, ma sarebbe stato un segno di debolezza del partito, per cui si è osato ancora. Tsai Ing-wen ha vinto invece il secondo mandato con il maggior numero di voti nella storia dell'isola in un'elezione turbolenta. Ora la chiamano l'Angela Merkel di Taiwan. "Se scegliessi di non fare ciò che so di poter fare, non potrei mai perdonarmelo", ha dichiarato alla stampa la 63enne, agguerritissima riletta presidente che ha ancora molti progetti da portare a termine. Quando a marzo Pechino ha espulso un buon numero di giornalisti americani, Tsai Ing-wen gli ha offerto di trasferirsi a Taipei, facendosi promotrice della stampa libera, e alcuni hanno accettato. Poi è arrivato il coronavirus emerso da Wuhan, e a Taiwan hanno agito rapidamente per schivarlo, basandosi sull'esperienza passata dall'epidemia di SARS del 2003, senza bisogno delle misure restrittive nella Cina continentale. L’isola si è dissociata dal resto del mondo e ha fatto affidamento sul suo altissimo livello tecnologico, per essere autosufficiente. Risultato: una popolazione di 23 milioni rimasta praticamente immune dal Covid 19, con appena 440 casi, e nessun nuovo contagio da 30 giorni. Un balzo di reputazione che ha posto Taiwan al centro dello scenario internazionale, e che Tsai Ing-wen, esperta di diplomazie commerciali, sta per cavalcare in modo così spregiudicato da poter pensare l’impensabile: fare le scarpe alla potente Cina che, ad appena 177 km di distanza, si lecca le ferite inferte dall'epidemia. E che ora ha così paura di lei da averle vietato anche solo di mettere piede all’assemblea del OMS.