Francesco Guccini ha scritto i più bei versi su tutto. La più bella descrizione di Bologna: «Benessere, ville, gioielli, e salami in vetrina»; il più bel manifesto di tolleranza per i difetti degli amici: «E chi fa il giornalista si vergogna; non che il fatto c’importi: chi non ha in qualche posto un peccato o un cadavere nascosto?»; la più bella sintesi di quell’errore perpetuo che è il rivedere gli antichi amori: «Stoviglie color nostalgia»; la più bella perifrasi di “tette”: «Ma tu non sei cambiata di molto, anche se adesso è al vento quello che io per vederlo ci ho impiegato tanto, filosofando pure sui perché»; il più bel fotogramma della vita al tempo dei social, scritto trent’anni prima che esistessero i social: «Nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento»; la più esatta polaroid di quella cosa che non è depressione, è solo quella stanchezza perpetua che ti prende dopo i quarant’anni, ma lui lo sapeva già poco dopo i trenta: «Stare a letto il giorno dopo è forse l’unica mia mèta»; la più bella italianità: «La grazia, e il tedio a morte, del vivere in provincia».

Francesco Guccini è una diva (ha smesso di cantare ben prima che ci stancassimo d’ascoltarlo: una tecnica nell’uscita di scena che Gloria Swanson gl’invidierebbe); è uno sceneggiatore (ogni sua canzone è un film, come accade coi testi di Tom Waits o di Leonard Cohen); è, soprattutto, un uomo che ama le donne. Che, esattamente come per Truffaut, significa innanzitutto che ama sé: chiunque scriva scrive di sé, e quindi le donne di Guccini sono riflessi nel suo specchio («Sono vecchio d’orgoglio, mi commuove il tuo seno»). Il che non toglie che quegli spasmodici trucchi di radianza siamo noi.

Siamo noi l’adultera di Scirocco, quella che «si alzò, con un gesto finale, poi andò via, senza voltarsi indietro» (mentre l’adultero, già lo sapevate prima di sentire la canzone, «restò, come chi non sa proprio cosa fare»); siamo noi quelle signore Bovary «piene di trucchi per tragedie immaginarie»; siamo noi la sua prima moglie, Roberta, quella per cui fu scritta Vedi cara, anche se non abbiamo mai avuto un marito così bravo con le parole da scrivere la frase più micidiale della storia delle canzonette: «Tu sei molto, anche se non sei abbastanza»; siamo noi quelle che passano la vita a chiedersi se siano state almeno per un attimo, non oltre i diciannove anni, «bella d’una sua bellezza acerba, bionda senza averne l’aria» come la barista di Autogrill; soprattutto, siamo noi Farewell Pistolazzi.

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AG ALDO LIVERANI SAS
Il cantautore con Angela, madre della figlia Teresa, qui in primo piano, nel 1983.

Su Angela, la donna con cui ha avuto alla fine degli anni Settanta la figlia Teresa, Guccini ha scritto a storia conclusa la mia preferita delle sue invettive, Quattro stracci, ma su quella poi ci torniamo. Prima c’è da affrontare Farewell, la canzone con cui cominciò a dirle addio. Non ci voleva un enigmista per decifrarla: il rimando a Farewell Angelina di Bob Dylan, per congedare un amore che si chiamava Angela, non stava solo nel titolo, ma anche nell’esplicita citazione d’un verso nel testo (the triangle tingles, and the trumpets play slow). Tuttavia erano i primi anni 90 (il disco in cui sta Farewell è del ’93), le vite private dei cantanti non si svolgevano in perpetua diretta Instagram, e poi non tutti sono tenuti a sapere l’inglese o a riconoscere Dylan, e alcuni magari erano impegnati a commuoversi (Farewell contiene la più bella condanna a morte d’un amore: «Il peccato fu creder speciale una storia normale»); e insomma un giorno un fan va da Guccini e gli dice, consolatorio, che non deve rimpiangere troppo la sua Farewell. Guccini decifra il tragico equivoco: il fan pensava che il nome proprio dell’amor perduto fosse Farewell. E quindi usa, Guccini, un trucco del mestiere di quelli che gli vengono meglio: tramutare l’imbarazzo in farsa.

In Canzoni (Bompiani), un libro in cui ne analizza i testi, la studiosa Gabriella Fenocchio rimanda a Orazio per decodificare quel verso di Via Paolo Fabbri 43 (che oltre a essere il suo indirizzo bolognese fu anche un disco: Guccini violava la propria privacy ben prima che esistesse Instagram) in cui si diceva a una lei «sii saggia, com’io son contento». Temo però che non ci voglia il consulto con uno psicanalista viennese per dire che altro che citare Orazio: lì Guccini ascrive a sé il ruolo ludico, e alle proprie donne quello, inevitabilmente più noioso, di riportarlo alla realtà. Fatto sta che prende l’errore interpretativo di Farewell e ne fa uno dei suoi aneddoti preferiti, cui perfeziona una chiusa comica che sembra il titolo d’un film con Renzo Montagnani: «La signorina Farewell Pistolazzi».

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Con la prima moglie Roberta Baccilieri nella foto che appare sul retro dell’album Radici, 1972.

È anche possibile che il fan convinto che Angela si chiami Farewell sia, come le donne delle canzoni, un filamento dell’immaginazione gucciniana: fa parte della leggenda che ogni autore crea di sé fingere che l’inventiva sia testimonianza, attribuire i propri guizzi ad altri, che servono come la sponda nel biliardo, a rimandarti la biglia dove serve. Ogni volta che Guccini racconta d’aver scritto La locomotiva, la canzone sul ferroviere anarchico con cui per anni ha chiuso i concerti in un entusiasmo di pugni alzati anche da parte, dice lui, di gente magari moderata ma trascinata dall’entusiasmo collettivo, una canzone di otto minuti che è, come tutte le sue, una sceneggiatura compiuta, ogni volta che racconta d’averla scritta in venti minuti, annotando a margine, mentre scriveva una strofa, le idee che gli venivano per la strofa successiva, io penso ad Arthur Miller. A Morte di un commesso viaggiatore, il più importante testo teatrale del Novecento americano, che sarebbe stato scritto in cinque giorni. Che siano invenzioni che si concedono per alimentare la loro stessa leggenda, o verità che non hanno la decenza di tacerci, comunque trattasi di bullismo: non ti basta aver scritto l’opera immortale che a me non riuscirebbe neanche in cinque anni, vuoi pure dirmi che tu l’hai fatta in cinque minuti.

bologna, italy   march 19  italian musician and author francesco guccini and his wife and producer raffaella zuccari attends the conference to unveil the movie la mia thule about his latest music record ultima thule at vito restaurant on march 19, 2013 in bologna, italy  photo by roberto serra   iguana pressgetty imagespinterest
Roberto Serra - Iguana Press
Guccini oggi vive a Pàvana, Pistoia, con la moglie Raffaella Zuccari (qui con lui), sposata nel 2011.

Adesso che Guccini ha raggiunto la pace dei consensi, non fa più concerti, è tornato a vivere a Pàvana (dove trascorse i suoi primi cinque anni di vita, quelli della Seconda guerra mondiale, prima di venire riportato nella casa alla periferia quasi campagnola di Modena, «fra la via Emilia e il West»: è impossibile raccontare Guccini senza usare le parole di Guccini); adesso che ha ottant’anni e sostiene di non aver proprio mai voglia di scriver canzoni ma solo libri, e ha una moglie assai più giovane, Raffaella, così fortunata da aver avuto per marito un cantante solo quando la relazione era nella fase melensa (in Vorrei le diceva «non sono quando non ci sei», che è una frase d’amore così assoluto che una meno solida sarebbe fuggita in preda a terrore e claustrofobia); adesso, si può dire che lasciarsi è meglio che innamorarsi - nelle canzoni di Guccini, intendo. Quattro stracci, l’invettiva contro Angela, descrive una che tutte conosciamo: «Eterna vittima d’un sopruso», ma anche «la libertà delle tue pozioni, di yoga, di erbe, psiche, di omeopatia, di manuali contro le frustrazioni», ma anche «le vie del mondo ti sono aperte, tanto hai le spalle sempre coperte». Abbiamo tutte avuto un’amica, una figlia, una madre, una sorella così. Se lo siamo (state) noi, ostinatamente lo negheremo. Solo in certe sere di confidenze impresentabili ammetteremo che uno che ci guardi e ci veda così ferocemente è molto più innamorabile d’uno che ci dedichi frasi melense. Lo psicanalista viennese di prima direbbe che dipende dal meccanismo illustrato in due versi di quella stessa canzone: «Quando sei dentro vuoi esser fuori, cercando sempre i passati amori».

Non è mica solo quando si tratta di donne, che Guccini finge di parlar d’altri parlando di sé. Edmondo Berselli raccontò in diversi libri (era uno di noi che ci rivendiamo spesso le cose che ci colpiscono) l’epifania su De André svelata da Guccini durante una serata alcolica. «Aveva formulato un verdetto. Non del tutto inatteso, ma sbalorditivo come può stupire una verità taciuta da sempre. “De André piace a tutti perché parla della cosa”. Cioè proprio la cosa in sé. Il noumeno del maschio. L’oggetto del desiderio. Il feticcio supremo. Ci siamo capiti o no?». Si capivano, tra uomini che amano le donne.