Avere consapevolezza della propria razza è un percorso simile a quando tu, come donna, inizi a prendere coscienza della tua sessualità. Sfortunatamente succede molto prima ed è un processo più doloroso. In entrambi i casi si perde l’innocenza. Ma mentre la scoperta del sesso è fonte di piacere, il tema della razza per chi è nero porta orgoglio e pena, vergogna e dolore.

Facevo la seconda elementare ed ero in fila con i miei compagni. C’era una bambina, che io adoravo, che si gira e mi dice: «Tu sei nera!», con una smorfia di disgusto sul viso. «No, sono marrone», le risposi. Come se fosse meglio. Avevo 7 anni, ho pianto. Allora non lo sapevo, ma provavo vergogna per la mia pelle.

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Vanessa Riding Bonami.

Mia madre ce la metteva tutta per mandarmi nelle scuole migliori, dove comunque ero sempre l’unica nera. Non mi ha mai parlato di razza, l’unica a farlo era la nonna che mi diceva: «Siamo nere, dobbiamo essere più toste, più forti». Quando volevo una Barbie mi chiedeva perché non la volessi come noi. E io rispondevo: «No, big mama, ne voglio una bianca», perché così erano quelle che vedevo in giro, modello ideale di bellezza a cui tendere. Non sapevo ancora che non sarei mai potuta essere così. Mia madre non mi aveva preparata alla diversità. Non collegavo i commenti aggressivi di certi bambini o l’essere esclusa da alcune attività al colore della mia pelle.

Ma in prima media ho aperto gli occhi. Amy, la mia migliore amica, bianca, mi invitò a una festa. Era quel periodo in cui frequentare i ragazzi diventa una scoperta e io ero felice ci fosse Paul. Però all’improvviso Amy, che mi ripeteva sempre quanto fossi bella, mi disse: «Piaci a tutti, ma in realtà non piaci davvero, perché sei nera». Per anni ho cercato di rimuovere quelle parole, ora tornate fuori con prepotenza: oggi ricordo persino come eravamo vestite quel giorno, nella sua bella casa vittoriana a Buffalo. In realtà, quel momento ha distrutto le mie sicurezze per sempre, non l’ho realizzato allora, ma ha lentamente corroso la mia autostima. Non lo dimenticherò più. Poi ci siamo perse di vista, ma ora vorrei capire se si è resa conto di quello che ha provocato.

ALLA KENT STATE UNIVERSITY, in Ohio, mi sono divertita: non c’era segregazione anche se i bianchi stavano con i bianchi e i neri con i neri, ogni tanto ci si incontrava. Quella è l’età in cui diventi afrocentrico o comunque scopri chi sei e prendi coscienza dei momenti di razzismo vissuti. Anche tra donne del tuo stesso colore, condizionate da troppi stereotipi: se sei più scura o troppo chiara, se hai capelli diversi, non tutte ti accettano. Andavo più d’accordo con gli uomini. Uscivo con un ragazzo nero, lui mi ha insegnato a essere orgogliosa della mia razza, e quando mi sono trasferita a New York per il master, finalmente ero pronta a dichiarare al mondo e a me stessa:

«Sono nera».

Anni dopo ho incontrato mio marito e mi sono trasferita a Milano, dove ho scoperto che il razzismo è una bestia mutevole, letale in America, serpeggiante e umiliante in Italia. Avevo aspettative romantiche, il sogno di una società più aperta. Presto invece ho dovuto fronteggiare un tipo diverso di rifiuto. Negli Stati Uniti i neri hanno una paura fisica, qui ne ho sviluppata una psicologica. Non temevo per me stessa, ma per mia figlia e per mio marito. Che cosa succederà a loro se reagisco al bigottismo e all’ignoranza? Lei si sentirà esclusa a scuola e lui sarà danneggiato professionalmente. È incredibile come commenti che negli States sarebbero considerati crimine e costerebbero a chi li fa il lavoro e la reputazione, in Italia sono ritenuti irrilevanti, a volte addirittura divertenti.

Un esempio? Mentre le nostre figlie stavano giocando, una volta una signora dell’aristocrazia che collabora come musa con una delle più grandi case di moda italiane mi ha detto che in passato avevano avuto una tata così nera che sua figlia ne aveva paura. Ero scioccata, certo, ma come mi succede ancora oggi tendo a non reagire, perché non voglio che si rifletta negativamente sulla mia famiglia. Mi sono odiata per essere stata zitta, ma alla fine ti abitui a essere quella che non causa problemi, sempre educata e piacevole. E quella collega di mio marito che ha una playlist chiamata Nigger’s List? Capisco che si tratti di rapper, ma le ho spiegato che la parola non è accettabile.

Sto parlando di gente istruita, attenta al proprio comportamento sociale, ma del tutto inconsapevole del proprio razzismo

Quante volte alla scuola di mia figlia mi hanno chiesto di che bambino fossi la baby-sitter. A mia figlia dico di ricordarsi che una parte di lei è nera, le parlo della mia cultura, della nostra storia. Quando le proteste sono iniziate in America, le ho raccontato quello che stava succedendo. Le ho detto che anche se non è nera come la nonna o come me, quello è il nostro sangue e quella forza attraversa anche lei. Lei è stata sorprendente: invitata a giocare a casa di una sua amica il giorno della manifestazione a sostegno del Black Lives Matter, lei ha risposto: «Posso giocare più tardi, voglio stare con la mia gente». Mi ha fatto piangere, e resa orgogliosa. Spero che l’empatia suscitata da questo movimento sia praticata ogni giorno ed estesa agli africani che arrivano in Italia. Perché tra i bianchi conta anche la classe sociale, per noi è la pelle a definirti.

Quando esco, cerco di vestirmi bene, è come indossare un’armatura che mi protegge. Ma so anche che sotto sotto prevale il mio colore. Mi chiedo: sono ipersensibile? Certo, ma la mia è un’insicurezza generata da 39 anni di commenti passivo-aggressivi, dal non sentirmi inclusa, dai sentimenti di paura e delusione. E l’ultima volta che una mamma della scuola mi ha chiesto di chi fossi la tata, ho perso le staffe. Io non ho nulla contro le tate, il loro lavoro è prezioso, ma ho una laurea, un master in Arte, ho lavorato per un’importante galleria d’arte a New York e gliel’ho detto. Come quella volta che io e mia madre siamo state seguite dalla security in un negozio Nike di Milano; infastidita ho chiesto spiegazione alla cassiera che mi ha risposto: «Siete sospette». Ho riportato l’incidente agli alti vertici, si sono scusati,

ma il punto è che sei e resti soltanto una donna nera.

Oggi sono felice di vivere in Italia, e non negli Stati Uniti, ma penso che anche qui il razzismo sia una goccia che giorno dopo giorno consuma le persone. Mentre in America è una ferita purulenta, in Italia è come l’acne sulla pelle. Devi cercare di conviverci. Ci vuole tempo per ricostruire una sicurezza distrutta, ma quest’anno compio 40 anni ed è il regalo che voglio farmi. Mi impegnerò per la dignità, il futuro e l’integrità della società e del singolo e quindi per la mia dignità, il mio futuro e quello di mia figlia. Ha 8 anni e crescerà in un ambiente in cui avere un colore diverso è ancora considerato, in modo sottile e perfido, una sorta di difetto. Martin Luther King aveva un grande sogno, io ne ho uno piccolo e semplice.

Sogno che mia figlia possa crescere più forte e felice di me.

***Vanessa Riding Bonami, 39 anni, afroamericana, vive a Milano con la figlia di 8 anni e il marito, il critico d’arte Francesco Bonami.