Il giorno in cui hanno chiuso le scuole, avevo un’interrogazione di greco programmata. Il lockdown è arrivato come una benedizione dal cielo, nel mio caso. Dopotutto, per noi studenti all’inizio sembrava quasi una vacanza. Un’ora di sonno in più la mattina, niente corsa nel gelo della nebbia milanese per arrivare puntuali, lezioni su Cartesio seguite in pigiama dalla comodità del divano. Il ritmo martellante che aveva scandito gli ultimi quattro anni di liceo era scomparso, lasciando posto ad uno stato di completo ozio. Eravamo tutti confusi, insegnanti compresi. Così le ore di lezione erano diminuite, i compiti pure, e senza quegli impegni pomeridiani che mi assillavano normalmente, ero sprofondata in uno stato di dolce nullafacenza.

Che fosse lunedì o giovedì non importava più. Riemergevo dal mio torpore solo alle sette di sera per il telegiornale, che mi deprimeva al punto da svegliarmi un po’. Poi cenavo, e mi riaddormentavo. Non mi trovavo male, non avevo nessuna voglia di uscire. Mi ero potuta permettere di non pensare a nulla a parte la pandemia, un pericolo di cui ero molto consapevole, ma che sembrava comunque distante. Avevo momenti in cui speravo irrazionalmente di non dover uscire più. Negavo a me stessa che mi mancava l’interazione sociale extra-familiare.

Dopo qualche esitazione iniziale, i professori si sono riorganizzati, rinvigoriti e sono partiti alla riscossa. L’orario è tornato ad essere quello solito, e i compiti sono triplicati. Mi rendevo conto che si avvicinava la luce in fondo al tunnel che è la fine del liceo, e che dovevo inventarmi qualcosa da fare nella vita, o perlomeno per gli anni dell’università. Decidere cosa rendere la tua vita dopo il liceo è emotivamente devastante quando non sai neanche come dovrai affrontare la maturità. Ho passato ore al telefono con le mie amiche speculando sulla riapertura delle scuole, sulla modalità dell’esame di stato. Quando le conversazioni hanno iniziato a prendere una deriva nichilista, mi sono imposta di non guardare più in là di un giorno alla volta.

Per non perdere completamente la testa, mi sono concentrata sull’ultima certezza rimasta. Ho smesso di passare la giornata in pigiama, messo da parte Netflix, e mi sono avventata sui libri di scuola. Senza l’ansia delle temute versioni di greco in classe che dimezzano la media scolastica, del terrore delle interrogazioni a sorteggio, ho studiato come non mai, nonostante le difficoltà. Che non sono state poche. Studiare i logaritmi è già provante, ma diventa un’impresa cercare di capirli sentendo una parola ogni due della spiegazione. Per di più, il mio computer risaliva a undici anni fa, che in termini di tecnologia digitale equivale al pleistocene, e di conseguenza non reggeva neanche Zoom. Eppure sono riuscita a uscire con la pagella più bella che avessi mai avuto.

Alla fine dell’anno scolastico, ero già rassegnata a un’estate in solitudine, senza mare né viaggi. Ero tranquilla nella speranza che i miei sforzi sarebbero stati ripagati con l’apertura delle scuole in autunno. Però guardavo i social e vedevo le folle e le feste nei locali delle spiagge. E intanto, quelli stessi politici e governatori che avevano aperto le discoteche accusavano i miei coetanei di essere immaturi e irresponsabili.

Quando sono tornata a Milano, però, erano i loro coetanei che affollavano i bar per l’aperitivo, non i miei

I giornali e la televisione hanno passato i mesi estivi a scrivere a caratteri cubitali l’importanza dell’istruzione, il nostro diritto alla scuola. Contemporaneamente, ogni medico e virologo che intervistavano ripeteva che, se avessero aperto scuole e uffici, a ottobre saremmo stati punto daccapo. Sono diventata molto scettica sulla riapertura a settembre. Le modalità che proponevano erano assurde e mutevoli da una settimana all’altra. Invitati ai programmi televisivi, i politici, competenti e non, si contorcevano sulla sedia come studenti di prima all’orale di latino. Risposte sibilline da chi avrebbe dovrebbe essere competente, e risposte presuntuose da persone che sembravano non aver mai messo piede in una scuola.

Non posso parlare per tutte le scuole del paese, ma la mia classe è stata sottoposta a ogni metodo di didattica mista, reinventata, rimescolata e integrata esistente. Non è scuola, questa da casa. Ma non lo erano neanche le lezioni seguite in cinque da casa e in venti dalla classe, anzi. Quello che deve venire innanzitutto è la salute pubblica. Il diritto alla scuola è fondamentale, e siamo noi stessi studenti a rivendicarlo. Le scuole erano forse i luoghi più sicuri, per chi come me vive a pochi minuti a piedi, ma non per chi deve farsi un’ora in un treno affollato per arrivare.

Non si può pensare di riaprire le scuole in una situazione del genere, se non in modo radicalmente diverso da quello a cui eravamo abituati.

Mi sono sentita molto più sola all’inizio di quest’anno scolastico che ad aprile.

I professori sembrano essersi dimenticati della situazione che stiamo vivendo anche dal punto di vista psicologico. Troppi non si rendono conto della fatica che facciamo a studiare dopo ore davanti al pc, e scambiano stanchezza per pigrizia. Fra un’ora e l’altra abbiamo cinque minuti scarsi di pausa, istanti preziosi di cui spesso gli insegnanti si dimenticano. Il mio computer mi ha gentilmente informato che lunedì sono stata al computer per dieci ore e due minuti, fra lezioni e studio pomeridiano. La didattica a distanza è forse più impegnativa della scuola normale. È dall’inizio dell’autunno che, quando parlo con qualche amico, compagno di classe o non, finiamo per ripetere le stesse cose. Siamo tutti continuamente sull’orlo di una crisi isterica. Le interrogazioni si accumulano senza tregua, il pomeriggio non abbiamo neanche il tempo di prendere fiato. Ero abituata a divorare un romanzo alla settimana, ora non leggo da due mesi.

Se ci volete mandare a scuola, trovate soluzioni serie. Non banchi colorati a rotelle, ma neanche striscioni sul diritto allo studio.

Noi quinte siamo all’ultimo anno di liceo. Non possiamo passare i pomeriggi insieme, né studiare freneticamente la mattina della verifica al bar, fra una risata e un cappuccino. Non possiamo fare le feste dei diciott’anni, sentirci finalmente liberi. Diventare maggiorenni chiusi in casa non è diventare veramente maggiorenni. Sta scomparendo quella fase di passaggio fra adolescenza e maturazione personale che dovrebbe essere la quinta, quella crescita personale che non può avvenire in un isolamento in cui non c’è neanche il tempo di tirare un respiro di sollievo. Abbiamo sette mesi per progettarci una vita dopo il liceo, per la quale non siamo preparati, e che in realtà non possiamo pianificare. Non c’è più niente da attendere con impazienza a parte la fine dell’emergenza sanitaria.

Credo sia normale sentirsi sperduti a quest’età, ma noi ci sentiamo completamente persi, impreparati per affrontare il dopo, qualsiasi cosa sia. Siamo molto consapevoli di essere nel mezzo di una pandemia tremenda, sappiamo bene di essere solo fortunati, in questa situazione. Abbiamo tutti dei nonni per cui siamo preoccupati. Rimane tuttavia questa morsa tremenda dell’incertezza più assoluta. Dopotutto, su scala globale, è da più di settant’anni che i ragazzi della mia età non affrontano un futuro così sospeso.