“Te lo dico prima. Non chiedermi quante donne avete salvato? Chi si è salvato, si è salvato da solo. Noi siamo solo dei professionisti che credono fermamente in un’impresa con la i maiuscola”. Basterebbe questa manciata di secondi al telefono, di lettere nero su bianco, a dipingere il ritratto potentissimo di Caterina Micolano, Presidente del Consiglio di Amministrazione della Cooperativa Alice, cooperativa sociale senza scopo di lucro fondata nel ‘92, che con il laboratorio Sartoria San Vittore restituisce dignità ai detenuti attraverso il lavoro, mentre restituisce all’Italia la sua cosa più preziosa, il business made in Italy. “Noi diamo semplicemente delle opportunità, siamo un network che unisce territori, ruoli e persone. Per chiarirci, non stiamo in piedi grazie alle donazioni, viviamo di contratti di lavoro come tutti. Anche se, purtroppo, dobbiamo dimostrare il doppio rispetto a un’azienda normale. D’altronde, se lo Stato italiano continua a etichettare le “categorie fragili”, le “normative sugli svantaggiati”, “le azioni filantropiche”, l’idea che la gente avrà delle cooperative come le nostre, non cambierà mai. Bisogna invece cambiare narrazione, informare, raccontare, fondare un movimento che faccia cultura della sostenibilità, dell’inclusione e della fiducia. Perché è il lavoro vero che ti fa arrivare gli assegni e ti fa sentire di nuovo accolto nel sistema economico”. È da queste premesse-promesse che quest’anno è nato il progetto Italia is One, fortemente voluto da Cooperativa Alice insieme a Gruppo Servier e altre due realtà italiane di artigianato sociale, Astrolabio e Mending for Good. Decise a sostenere la produzione di mascherine chirurgiche a 3 veli, circa 140 persone, la maggior parte detenute, hanno prodotto oltre 60 mila mascherine interamente realizzate a mano nei 12 laboratori delle cooperative, con l’obiettivo di fronteggiare la richiesta di questi dispositivi e renderli disponibili per le categorie più bisognose come i detenuti, spesso costretti in spazi angusti senza possibilità di distanziamento sociale, o il personale operante negli istituti penitenziari. “L’emergenza sanitaria che l’Italia e il mondo intero si trovano ad affrontare impone a tutti un impegno collettivo in termini di responsabilità sociale. Dall’inizio della pandemia il Gruppo Servier in Italia ha sostenuto diverse iniziative per contrastare gli effetti di questa epidemia, a supporto delle autorità sanitarie, medici, ospedali, fondazioni, associazioni pazienti e cittadini in difficoltà. Un impegno che continuerà anche per i mesi futuri”, ha raccontato Viviana Ruggieri, portavoce del Gruppo Servier in Italia. “La nostra mission mette al centro di ogni azione le persone, e non poteva esimersi dal supportare Italia is One, che rappresenta un esempio unico e concreto di riabilitazione sociale e di tutela del diritto inalienabile alla salute delle persone private della libertà, nel caso specifico della popolazione femminile, una categoria particolarmente bisognosa di supporto”.

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Dalla sartoria teatrale per la creazione di costumi per La Scala e la Fenice alla realizzazione di abiti per gli spot pubblicitari, fino alla fondazione del proprio brand Sartoria San Vittore, Cooperativa Alice è stata tra le prime realtà in Italia ad aver parlato di moda negli istituti penitenziari. A dimostrare come il design, la creatività e il saper fare, siano ingredienti fondamentali per un riscatto sociale che non coinvolge soltanto le donne detenute o vittime di violenza, ma travolge l’intero sistema che lo scatena. “Dopo tanti anni trascorsi accanto ai detenuti, ti rendi conto di quanto la linea di confine della libertà sia molto sottile. A me non capiterà mai, quante volte l’abbiamo detto o sentito dire? Senza pensare che la maggior parte delle volte è la disperazione a farti compiere gli errori”, racconta Caterina. “Cos’è la libertà? Non è una quesitone di carattere penale, non è libero chi è fuori da una galera, vedo tutti giorni detenute che sono molto più libere di me dentro, nell’animo. Libertà è una condizione mentale, e noi con il nostro lavoro speriamo di far scattare quella molla, quel pensiero che spinge un detenuto a dire okay, ho la possibilità di ripartire, chi voglio essere?, chi potrei essere?, da dove riparto?. Decidere di ripensarsi, liberi di investire nuovamente su se stessi, è questo l’obiettivo del nostro mestiere”.

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E noi? Cosa dovremmo imparare da voi? “L’Italia tutta continua a parlare di sostenibilità, di slow fashion, di business impegnati, facendo un copia-incolla di quello che accade in tutto il resto del mondo. Si dimentica, invece, di chi siamo come Paese, dell’importanza che ha la nostra industria manifatturiera. Ma per fare questo c’è bisogno di un’azione corale, il sistema made in Italy deve dimostrare di essere capace a dialogare e unirsi, essere utile e al tempo stesso generare sicurezza. Per una volta non stiamo chiedendo niente, vogliamo solo dare. Se i brand ci aiutassero a raccontare un sistema di manifattura sostenibile nelle filiere produttive, un sistema che riparte dal locale, dal piccolo, dall’artigianato, sarebbe un grandissimo passo avanti”, mi spiega Caterina con la voce ferma e fiera. “Dovremmo chiederci: chi deve essere un’impresa socialmente utile oggi? E deve essere utile solo al carcere o anche alla società? Secondo noi anche alla società”. “Non ti rende migliore comprare un maglione confezionato dai detenuti, non è questo il messaggio che vogliamo comunicare. Vogliamo raccontare che la tradizione artigianale italiana sta morendo e andrebbe salvaguardata, vogliamo dimostrare che il saper fare con le mani ci ha salvato più e più volte dalle crisi nella storia dell’Italia. Attraverso sudore e calli, mica dall’oggi al domani. I detenuti che lavorano con noi iniziano un percorso che li porta a diventare artigiani del made in Italy, non operai. Noi non siamo solo operatori che ti fanno stare bene o ti alleviano dolori, accogliamo detenuti, persone richiedenti asilo, tossicodipendenti che negli anni possono diventare sarti, detentori di quelle skill di cui il paese ha bisogno. È questo il futuro che lasciamo nelle loro mani, mentre sono ancora dentro”.