Ho un’amica novantaduenne che di recente m’ha chiesto quand’è che abbiamo iniziato a equiparare il marito che t’ammazza a quello che ti dice «Sta’ zitta». È stato, le ho risposto, quando abbiamo iniziato a dimenticarci che sono solo parole: la data esatta la scoprirai leggendo il mio libro (per vendere una copia in più m’approfitto delle signore anziane, sono proprio una svergognata).

Certo che so che le parole sono importanti; ma i due concetti non confliggono, anzi. Se, per dire la disapprovazione delle tue posizioni politiche, un docente universitario ti dà della scrofa, non fa una cosa sensata. Ma non fa innanzitutto una cosa sensata per sé: che considerazione avremo d’un accademico con tale povertà di linguaggio? Le parole sono importanti. Quanto a te, se sei furba ti dirai offesa e ferita (è un ottimo momento per approfittarsene), anche se sai benissimo che sono solo parole.

Ti dirai offesa non personalmente, ma come appartenente a una categoria: «in quanto» è la locuzione più importante di questa nostra era della suscettibilità. Raggrupparsi è un sistema per ottenere forza che in passato ha dato ottimi risultati (i diritti dei lavoratori, per esempio): quand’è diventata un’arma di distrazione? Potrei occuparmi dei veri problemi delle donne - che non mi molestino, mi paghino il giusto, e soprattutto trovino una cura per le mestruazioni: se gli uomini sanguinassero tutti i mesi, l’industria farmaceutica avrebbe già risolto il problema - e invece la società dei suscettibili vuole che, in-quanto-donna, io m’offenda per le battute, veda sessismo in luoghi assurdi quali i film e le canzoni, colga ogni occasione per rimarcare la mia fragilità: da quando?

La categorizzazione doveva fare la forza, e invece è servita a feticizzare la debolezza. Abbiamo deciso che la nostra priorità non fossero i fatti ma le parole: il non essere irrisi, insolentiti, chiamati coi nomi sbagliati. Fingiamo d’ignorare che, se nel 1980 fossero esistiti i social, a quest’ora staremmo parlando dell’album della pandemia di John e Yoko: il tizio che sparò a Lennon si sarebbe sfogato creando la pagina «John è un quattrocchi», e il marito di Yoko Ono ora sarebbe un ottantenne che ci spiega che lui passava le giornate a letto da prima del virus.

Che stesse succedendo - che stessimo diventando gente per cui il piagnisteo dev’essere legge - hanno provato a spiegarlo i romanzieri più bravi, da George Orwell a Philip Roth. Io ho solo messo ordine nella mutazione antropologica che va da quando un intervistatore dice a Simone de Beauvoir che, mancandole l’esperienza della maternità, «è mutilata», e lei ne approfitta per dargli una risposta che illumina lui e tutti noi d’un concetto fondamentale per capire il mondo, a un oggi in cui una de Beauvoir s’accontenterebbe dei cancelletti con cui dire a Twitter che si sente offesa e l’intervistatore maschilista non si deve permettere. Purtroppo non posso scrivervi qui la vera risposta della vera Simone: la mia amica novantaduenne, se non negassi anche a voi il riassunto che ho rifiutato a lei, s’offenderebbe moltissimo.

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Courtesy Guia Soncini

Guia Soncini è nata a Bologna, e le dispiace per gli altri. Ogni libro che pubblica giura che sarà l’ultimo, e così sperano le amiche che la ascoltano lamentarsi per tutto il tempo in cui scrive. Non fa un plissé se dubitate delle sue virtù, ma s’indigna se la insolentite con una punteggiatura imprecisa. Il suo ultimo libro, L'era della suscettibilità, è appena uscito da Marsilio (17 euro).