“È l’inizio di un nuovo alfabeto, di una nuova consapevolezza per le nuove generazione, affinché capiscano che non hanno in mano lo strumento del diavolo ma “semplicemente” una grandissima opportunità. La tecnologia è stata creata per essere condivisione, non isolamento. Perché quello che fa la differenza, è come ti vivi le cose”.

Esperta in comunicazione e marketing culturale, imprenditrice, docente universitaria, capitano dell’Esercito Italiano e scrittrice. E badate bene che ho sintetizzato di molto la biografia di Elena Croci, wonder woman del mondo liquido e di quello molto molto concreto, mia interlocutrice al telefono in un pomeriggio di inizio primavera, a un anno esatto dall’inizio del lockdown in Italia. E anche se il suo ultimo libro Iperidentità (Franco Angeli) ci parla di “reale e virtuale, di gesti e del nuovo marketing della contemporaneità”, il lockdown c’entra. C’entra eccome, oggi che sono più di 365 giorni che viviamo impigliati a una rete (wifi), che scambiamo una finestra sul monitor con una finestra sul mondo.

Okay, cos’è l’iperidentità?
È quell’altra materia parte di noi, reale e virtuale, che, attraverso la tecnologia, sta emergendo come ulteriore affermazione della propria identità. Un’iper-estensione del sé. Un ponte tra me e il mondo che mi circonda, uno strumento aggiuntivo alla relazione. Si vive nel mondo reale, ma si vive anche in quello virtuale.

Un tema così vasto che sembrerebbe non avere risposte definitive ma solo tante domande. Quali sono?
E noi in quale versione di noi stessi ci riconosciamo? Siamo migliori nel mondo reale o in quello virtuale? E come possiamo procurare e procurarci benessere nei nostri mondi? Per ora una cosa è certa, anzi due: ci vogliono speranza e consapevolezza, consapevolezza e speranza.

Consapevolezza di cosa? Speranza di cosa?
La consapevolezza del potere che abbiamo usando la tecnologia e vivendo in un mondo virtuale. La speranza, per citare lo psichiatra Eugenio Borgna, è “la passione del possibile”. Dove c’è speranza non c’è disperazione. E spesso speranza rima anche con tecnologia, che sia chattare con qualcuno o trovare delle risposte online.

Un’ottica molto positiva e per niente bacchettona. Non capita spesso di sentire questi pareri sulla tecnologia.
Ho ascoltato, osservato, studiato persone, comportamenti e innovazioni per anni. E anche la tecnologia, come tutte le innovazioni, dalla ruota alla radio, inizialmente è stata accolta negativamente, perché il diverso ci spaventa. Però, quello che vorrei far capire io, è che i mondi virtuali possono diventare concreti, fatti di scambi dal vivo e buone relazioni personali, fondamenti essenziali per la nostra felicità. E lo faccio tentando di delineare chi sono e chi saranno l’uomo e la donna nuovi, in grado di muoversi in un contesto globalizzato, dinamico e in costante evoluzione. Quindi, partendo dall’osservazione della tecnologia e dei social media come parte integrante della nostra vita, ho cercato di individuare quali possano essere i cambiamenti epocali in atto e come la tecnologia possa offrire una nuova dimensione di benessere. È questa la visione che potremmo definire “positiva”.

L’ultimo anno pandemico quanto ha accelerato questo processo?
Moltissimo. Ci siamo ritrovati a dover gestire un mondo nuovo, una quotidianità diversa, senza relazioni fisiche, solo virtuali. Meglio di niente eh, la rete ci ha permesso di tenere in vita i rapporti umani, a modo suo. Tra le tante cose che ci mancano, oggi, c’è l’empatia. E l’uomo ha tanto bisogno di empatia.

Chi sono l’uomo e la donna nuovi?
Chi utilizza la tecnologia come supporto e strumento di crescita. Ma senza rinnegare il bisogno di tornare alla natura.

A proposito, sostieni che la natura, grazie alla tecnologia, è più bella. Che significa?
Sono una fiera sostenitrice di quella tecnologia che sposa la natura, aiutandoci a esplorarla o conoscerla meglio.

Mi fai qualche esempio?
Penso alle app che facilitano il vagare dei ricercatori di funghi o tartufi, alle mappe in 3D che ti aiutano a orientarti in un bosco o a riconoscere alberi, fiori, uccelli, che ti indicano una costellazione. Pensa che una decina d’anni fa ho condotto un esperimento sociale in un centro commerciale che costeggiava un bosco, era sempre pieno di gente, così ho deciso di fare delle domande ai passanti chiedendogli perché continuassero a passeggiare sul vialetto e non direttamente nel bosco. Mi hanno risposto tutti che trovavano più comodo non allontanarsi troppo, che nel bosco non avrebbero saputo come andare in bagno oppure saziare la fame improvvisa. Questa cosa mi ha fatto molto riflettere…

Non c’è davvero davvero niente che ti intimorisce della tecnologia?
Considerare la tecnologia una ragione di benessere. Il benessere deve venire da dentro di noi, grazie a noi, non grazie a qualcosa di “esterno”, a un braccio meccanico. La tecnologia è un elemento che sta al di fuori di noi, e lì dobbiamo lasciarlo stare. La mia paura è che smetteremo di guardarci dentro, pensando solo al braccio meccanico

50 anni fa qualcuno ha sentito il bisogno di coniare la definizione di “marketing”. Il significato di questa parola, oggi, è lo stesso?
È completamente cambiato. Negli anni 70 Philip Kotler, il papà del marketing per antonomasia, fornisce una definizione concisa ed efficace di cosa significa “marketing”: l'individuazione e il soddisfacimento dei bisogni umani e sociali. Oggi, invece, viviamo in un’economia dell’iperidentità, siamo portati a desiderare non solo il prodotto ma tutto ciò che c’è oltre e attorno. È per questo che brand come Nike o Apple ti parlano di quanto i loro mondi siano sostenibili, dediti al supporto della diversity, ti coinvolgono con hashtag sui social, creano caffetterie nei loro negozi per farti affezionare ancor di più a loro. Insomma, fanno di tutto per farti sì comprare qualcosa, ma soprattutto sposare appieno il loro modo di pensare. Oggi il marketing non deve solo dare valore al cliente come in passato, ma collegare mondi, vite, visioni.

Il tuo cv mi fa paura, cosa c’è dietro i tuoi successi?
La curiosità, le esperienze, gli interessi. Il pensare che studiare economia non vuol dire smettere di seguire l’arte, che se lavori per una banca d’affari non puoi fare a meno di analizzarne gli aspetti sociologici. Sono sempre stata mossa e commossa dall’uomo e dalla sua grandezza. E, probabilmente, il culmine del mio processo di scoperta del mondo, finora, è stato andare in Afghanistan, lì dove l’umanità ha avuto origine, lì dove le persone sono felici se sono libere, non se hanno molti soldi.

Forse non è possibile sintetizzarli in poche righe, ma che ricordi hai delle missioni in Afghanistan?
Invece, sai che in qualche modo possiamo sintetizzarle in tre parole? Fiducia, orientamento, identità. Erano i tre obiettivi principali che l’Esercito Italiano perseguiva per dare supporto alle popolazioni locali. La fiducia come antitesi della guerra, l’orientamento come la condivisione di connotazioni geografiche basilari, la maggior parte di loro non ha idea di cosa sia e dove sia Afghanistan, l’identità come insegnamento di storia e cultura, il vero collante delle relazioni umane.

E noi, uomini occidentalizzati, secondo quali nuovi parametri misuriamo la felicità?
Felicità oggi è accesso ai servizi, dal wifi al car sharing, è mobilità facilitata, è iperidentià ovvero il benessere generato dalle relazioni e dagli scambi che intrattengo sui social.

Possiamo azzardare un… L’uso “buono” della tecnologia ci mantiene in buona salute?
Sì, solo se è “buono”, appunto. Purtroppo ricevere consensi online, dai commenti su Facebook ai like su Instagram, può portare a una dipendenza da social che non è mai sana.

E tu, usi molto i social?
LinkedIn abbastanza, il resto no. Direi che chiunque preservi la propria privacy oggi sia molto saggio. Non so quanto la trasparenza online ci premierà in futuro.

Pensi che se avessi avuto uno smartphone da adolescente ti avrebbe spento o permesso di fare di più di quello che hai fatto?
Eh, non lo sapremo mai.