Il rumore di un elicottero che sovrasta un mare con un colore blu tra il ceruleo e il reale; il Golfo di Napoli e poi quella città che appare da lontano, all’alba, ma che - grazie al lento movimento della telecamera – si lascia svegliare mostrando le sue bellezze, da Castel dell’Ovo alla Riviera di Chiaia, dagli alberi di Mergellina fino a Posillipo e all’isola di Nisida. Dalla luce, si passa improvvisamente al buio, in stazione, dove una sensuale Luisa Ranieri aspetta il bus con un abito bianco che lascia volutamente intravedere le forme, in particolare il seno e i capezzoli, attirando l’attenzione di un uomo ricco che viaggia su una vecchia Rolls rosso bordeaux e che le dice di essere San Gennaro (è Enzo Decaro). Sa tutto di lei, non soltanto il nome (Patrizia) e, convincendola, la porta a casa sua, in un palazzo anch’esso buio dove in una stanza c’è un enorme lampadario a terra, un sogno vero e proprio, una dimensione onirica. Poi, di colpo, il cambiamento, il ritorno alla realtà che è più luminosa - questo sì - ma di certo offuscata da paure, dubbi, segreti e bugie.

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Nel suo nuovo film, È stata la mano di Dio, – presentato in anteprima mondiale alla 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia - Paolo Sorrentino fa sì che l’ordinario e lo spettacolare occupino lo stesso spazio e che i dettagli umani dei personaggi brillino della loro stessa vitalità. Il risultato che si percepisce è il senso di come il tempo perduto possa in sé diventare stimolo per l’arte e la creazione. “Se quella prima parte è ancora debitrice di quello che facevo prima, è una forma di congedo – ci ha spiegato il regista - quando il film approda ad una forma totalmente realistica, mi allontano anche da quei trucchi. Penso che la principale differenza tra questo film e gli altri che ho fatto stia nel rapporto tra verità e bugie. Se gli altri si alimentano di falsità nella speranza di individuare un barlume di verità, questo parte da sentimenti reali che sono poi stati adattati alla forma cinematografica”. Il film – che arriverà nei cinema il 24 novembre prossimo e poi su Netflix il 15 dicembre – è il suo più intimo, un romanzo di formazione allegro e doloroso, “un film costruito su di me, che parla della mia storia personale, con lo scopo anche di far capire ai miei figli perché sono sempre così schivo e silenzioso”. Tra racconti di esperienze personali, racconti inventati e storie che gli sono state raccontate da altri, il regista Premio Oscar per La Grande Bellezza ricostruisce la sua adolescenza attraverso il diciassettenne Fabietto (Filippo Scotti), tra gioie e dolori della sua famiglia, sconvolta dalla morte dei genitori per una fuga di monossido di carbonio nella casa di villeggiatura a Roccaraso appena restaurata. Lui riuscì a salvarsi, perché rimase a Napoli a vedere Maradona. In diversi momenti, la cinepresa si sofferma su quella famiglia tradizionale, ma scomposta e particolare, seguendola in pranzi a Procida o negli interni di appartamenti che più o meno si assomigliano tutti, aggiungendo qua e là giri in motoscafo, partite a calcio (dal vero o in tv), scherzi telefonici, tradimenti, amori e tentazioni tra canzoni e tante, tantissime parole. Uno spaccato in cui il riso alleggerisce costantemente il dolore diventando una risoluta forma di ribellione contro di esso. Come ha già fatto nei suoi libri, Paolo Sorrentino riesce così a far saltare le linee che separano il vero dall'immaginario, trasformando uno stesso elemento in evento reale e creando volutamente una confusione che disorienta e affascina. “Non è detto che tutto quello che vediamo nel film è realmente successo”, osserva. “Alcuni eventi sono accaduti, altro no. Ma è del tutto autentico nel riflettere quello che ho veramente provato in quel periodo del passato”. Il regista de Il Divo, La grande bellezza, The Young Pope, napoletano doc, torna nella sua città con un racconto sul destino e la famiglia, sull’amore e la perdita, sullo sport e il cinema che per lui hanno lo stesso valore (“sono due forme di distrazione supreme, sublimi e artistiche”). Si affida a un cast di napoletani, tra cui Teresa Saponangelo, Marlon Joubert, Luisa Ranieri, Renato Carpentieri, Massimiliano Gallo, Betti Pedrazzi, Biagio Manna, Ciro Capano, Lino Musella, Sofya Gershevich e molti altri, alcuni dei quali provenienti dal teatro, e soprattutto Toni Servillo.

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“Per me, Toni è come un fratello maggiore - spiega Sorrentino - ma è anche una figura paterna; dunque mi è apparso naturale chiedergli di interpretare il padre e malgrado non abbia alcun legame con il mio vero padre, Toni sia in qualche modo riuscito ad assomigliargli. È come un mistero magico che solo gli attori più straordinari sono in grado di compiere”. Dal canto suo, leggendo la sceneggiatura, Servillo è rimasto sbalordito. “Mi ha commosso fino alle lacrime e l’ho subito detto a Paolo”, ricorda. “È il sesto film che facciamo insieme e abbiamo una grande intesa, oltre a un profondo affetto e rispetto reciproci. È sempre molto eccitante lavorare con lui. Quando mi ha chiesto di interpretare questo ruolo, l’ho percepito più che altro come una prova che c’è qualcosa nel nostro rapporto che va al di là della dimensione professionale. Mi sono concentrato su questo sentimento e spero di essere riuscito a trasmetterlo, a lui e agli spettatori”. Nelle due ore di film, Napoli e gli anni ’80 la fanno da protagonisti, Maradona pure (e anche Fellini, di cui sentiamo solo l’’inconfondibile vocina), percepito da Sorrentino come un uomo già ammantato di divinità sul campo di calcio oltre ad essere una forza che ha protetto la sua vita. Un po’ come il cinema, che diventa così una forza salvifica, una distrazione dall’angoscia. Anni fa, ha sentito l'esigenza di registrare i ricordi e di fissarli da qualche, ma solo col passare del tempo, ha pensato che sarebbe stata una buona idea farne un film “perché avrebbe potuto aiutarmi non tanto a risolvere i problemi che ho avuto nella vita, quanto ad osservarli da una posizione molto più vicina e a conoscerli meglio”. “Tutti i miei film sono nati da sentimenti che mi appassionavano, ma dopo averli realizzati quella passione è svanita; così ho pensato che se avessi fatto un film sui miei problemi, forse sarei anche riuscito a dimenticarli, almeno in parte”. Se è vero che il cinema può congelare il tempo, Sorrentino percepisce anche il suo potere di aggiungere un’altra dimensione alla storia del film: una comunione con gli spettatori che portano in sala le proprie esperienze di perdita, il proprio vissuto di quei momenti nella vita in cui le cose meravigliose e le cose terribili entrano in collisione. Questa connessione di sicuro non contiene una risoluzione, ma forse può offrire una sorta di conforto. “Se altre persone potranno relazionarsi e identificarsi con le mie esperienze – conclude - se si vedranno specchiate nel film, beh, allora questo significa che la mia sofferenza sarà divisa a metà. Ed è una gran cosa”. La corsa ai premi, dal Leone agli Oscar, è appena cominciata.