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Intervista esclusiva a Silvia Venturini Fendi

Quando il fatto a mano è il massimo della modernità.

Di Antonio Mancinelli
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Getty Images

Fosse per lei, non butterebbe via nulla. «Sono un’archivista. Mi piace catalogare gli oggetti, gli abiti, i mobili, persino i giornali che ho accumulato nel corso degli anni. Praticamente passo i weekend a perlustrare casa cercando angoli dove poter piazzare l’ennesimo armadio. L’orrore che mi fa certa gente che vende le proprie cose su eBay, mamma mia! Io, per esempio, oggi sono felice perché ho trovato una parete libera».

“Oggi” è una bellissima giornata romana, di quelle che fanno capire perché lei voglia restare qui, in un palazzo di bellezza mozzafiato che porta il suo cognome e dove siede in maniera blandamente imperiale su un divano lungo lungo in una sala grande grande, dove risponde con calma e lieve distacco. Ma ha lo sguardo sottilmente ironico di chi nella vita ha fatto e visto di tutto nel reparto “Dimestichezza con il Bello”, e dunque possiede l’equilibrio che deriva dalla pratica quotidiana con il buon gusto, i nervi saldi e una nobiliare forma di umiltà. Silvia Venturini Fendi è direttore artistico degli accessori Fendi dal ’99 (quando il brand è entrato nella galassia Lvmh), mentre Karl Lagerfeld è direttore artistico della moda donna dal ’65.

Quando il giornalista le fa insolentemente notare come l’archivismo non dovrebbe rientrare esattamente nel suo lavoro, che implica l’adesione a quel Grande Buttafuori di idee e visioni destinate a durare sei mesi (ovvero il famigerato fashion system), lei gli fa educatamente notare quanto la memoria non faccia a pugni con la novità. Anzi. L’archivismo è un’eredità di famiglia («zia Carla aveva incaricato una signora di andare a recuperare dal cestino tutti gli schizzi che Karl buttava via, per stirarli e riporli dentro buste di plastica»), e certi successi estetico-commerciali, come le borse Baguette e Peekaboo, sono dei longseller. «Giusto per chiarire: le ho disegnate io. Però leggo di tante persone che dicono di averle inventate loro perché erano in azienda in quegli anni - fra un po’ anche il pony express se ne arrogherà la paternità - mentre di altri miei modelli meno fortunati nessuno dice: “È merito mio!”».

Terzo anello di congiunzione di una dinastia dello stile tutta al femminile, è nipote della fondatrice del marchio, la mitica nonna Adele che varò la maison nel ’25: «Avrebbe tanto voluto avere un maschio e si è ritrovata a dar vita a un matriarcato»; è figlia di Anna che, con le zie Carla, Paola, Franca e Alda, ha reso la doppia “F” un simbolo di lusso cosmopolita; è mamma di Delfina Delettrez, a 24 anni una dei protagonisti della gioielleria più immaginifica e che l’ha già resa nonna a cinquant’anni (nel frattempo il figlio Giulio Cesare, 22 anni, le sta per regalare il secondo nipote).

Presiede AltaRoma, istituzione attraverso la quale vuol riportare la couture italiana ai fasti di un tempo («a luglio, in partnership con Yoox, ho incaricato giovani stilisti di reinterpretare i capisaldi della nostra sartoria, dal pigiama-palazzo di Irene Galitzine agli abiti da sera delle Sorelle Fontana»), produce film con la First Sun (dopo il grande successo di Io sono l’amore, di Luca Guadagnino, ora è la volta di Diarchia, di Ferdinando Cito Filomarino) e da anni è attiva sulla scena del design come amorevole sponsor di progetti per lanciare nuovi talenti. L’ultimo si chiama “Fatto a Mano for the Future” e trasforma le boutique Fendi del mondo in botteghe dove artigiani del brand e designer lavorano insieme per creare pezzi realizzati con materiali di scarto. «Secondo me c’è un ritorno alla manualità, tanto che abbiamo pubblicato The Whispered Directory of Craftsmanship: A Contemporary Guide to the Italian Hand Making Ability, un libro che rende omaggio all’eredità italiana del saper fare e quindi di ciò che dovrebbe significare il made in Italy».

Perché usa il condizionale?
Perché il “fatto in Italia” è stato messo in pericolo da produzioni spregiudicate. Ora: la concorrenza è giusta e sana, ma non lo è più se impone una delocalizzazione in paesi che da un lato non possono garantire la stessa cura della confezione che abbiamo noi e dall’altro fanno lavorare operai in condizioni che non possiamo conoscere. Questo crea molti problemi: tecnici, etici, economici. La moda, recentemente, è cresciuta immensamente. La crisi ha causato delle scremature e ha rimesso tutto nella giusta prospettiva: noi europei siamo tagliati fuori dalle produzioni di massa, e sa che le dico? Ne sono felice. Certo, i giovani faticano a capire perché un nostro paio di pantaloni costi, non so, 500 euro e dall’altra parte della strada ne trovano un paio a 50 in un negozio low cost.

Il lusso è nei 450 euro di distanza?
Ma no! Il lusso è la cultura, appunto, di riconoscere le differenze. E non parlo solo di moda. Se sono una persona che non ha avuto la possibilità di toccare con mano una borsa in vero cuoio invece di una in plastica, allora non conosco il lusso di poter scegliere, di permettermi quello che la distingue.

E se uno, pur sapendo la differenza, sceglie quella di plastica?
Benissimo. Ma deve farlo sapendo cosa perde in termini di valore. E non parlo solo di valore economico.

Ma chi insegna ai giovani a “riconoscere le differenze”?
Ai miei amici stranieri dico sempre che nella mia città ci si può far confezionare tutto a mano e senza spendere follie. Sono realtà di nicchia, dalla storia incantevole, cui basterebbe una piccola azione di marketing perché su di loro si risvegliasse l’attenzione: non hanno nulla a che fare con i pomposi atelier che ti spennano viva. Come presidente di AltaRoma - tra l’altro mi fa sorridere quando mi chiamano: «Presidente!», non mi volto nemmeno - vorrei dare fiducia e slancio ad aziende che potrebbero scomparire per sempre. Sarebbe una vera catastrofe.

Come vede il futuro?
È fortemente consequenziale a quello che facciamo oggi, non è un concetto astratto, ma la somma di tutte le azioni che sono state compiute prima.

Cose in comune con la generazione precedente e con quella successiva?
La capacità di meravigliarsi di come un pensiero, un’immagine mentale, un disegno possano tradursi in una cosa che puoi toccare. Da noi regna quello che chiamo “effetto sorpresa”: entusiasmarsi per realizzare un’idea al di là del fatto che sia complicato. Per esempio, di Delfina ammiro l’attitudine, fin da piccolissima, a guardare le cose come se in tutto ci fosse una quarta dimensione. E nonna Adele ci diceva: «Per Fendi non esiste la parola “impossibile”».

Ci sarà mica un fattore genetico?
Penso più a un ambiente culturale comune. Se sei stimolato a sviluppare una forma mentis che fa apparire logico quel che al mondo sembra illogico, alla fine diventa parte della tua personalità.

Un tratto che l’accomuna anche a Lagerfeld…
Karl si annoia a una velocità supersonica. Lavora per fare qualcosa che lui stesso non ha mai visto. Da bambina non capivo cosa facesse in famiglia, ma ero già follemente incuriosita. Ho imparato da lui a chiedere e chiedermi sempre di più.

Lui parla benissimo di lei...
Davvero?! Mai con me. È una persona molto, molto rapida. E io sono molto silenziosa, quindi le occasioni per parlarci non sono molte. Ma ci conosciamo molto bene. Ci basta uno sguardo per intenderci al volo.
E gli occhiali neri? Esistono sguardi che oltrepassano qualsiasi lente...

*PAG*

Con la Baguette avete anche inaugurato il concetto di “limited edition”, ora arrivato anche ai fast food... Si difenda!
La “limited edition” è nata da un problema di fondo. Non riuscivamo a star dietro alla produzione, tante erano le richieste. Ma era anche un modo di sottolineare che volevamo - che vogliamo - anteporre la creatività al marketing, il culto della qualità all’industrializzazione selvaggia. E allora viva le limited edition! Salvaguardano la libertà della fantasia.

Quanta libertà può avere un brand come Fendi da quando è nel sacro recinto dei brand posseduti da una multinazionale del lusso?
Semplice: la libertà va conquistata. Se vengono assicurati risultati economici positivi, chi detiene la proprietà ha tutto l’interesse a lasciare carta bianca. Posso affermare di non aver mai avuto nessuna pressione da parte di monsieur Arnault (patron di Lvmh, ndr) ogni volta che propongo un’idea anche molto audace. Anzi: per quello che mi riguarda, se dico: «Questo venderà tantissimo!», mi guardano con scetticismo perché poi, magari, il mercato mi contraddice.
Ma di Baguette ne avete venduto quantità enormi… Sì, ma non avevo seguito i consigli dell’ufficio marketing. Mi era stata chiesta una borsetta un po’ minimal. E lo era, perché aveva una forma semplice, ma declinata in tessuti e pellami diversi, con decori importanti, addirittura barocchi. Sentivo che il minimalismo stava per concludersi e la presunta vocazione alla pulizia di linee si era trasformata in noia.

Non si sente responsabile del tormentone delle it-bag?
Siamo stati i primi a stopparlo. Il fatto che ci debba per forza essere “la” borsa di stagione non è un diktat. Con la Peekaboo, per esempio, avevo anticipato, prima della recessione, che il lusso doveva essere sussurrato e non più esibito, che tutto l’armamentario del bling bling era agli sgoccioli, che l’interno aveva più importanza dell’esterno. Ed è interessante come abbia successo nella linea più alta, quella “Selleria”, dove si può customizzare tutto. Certe signore fanno personalizzare la targhetta interna non solo con le loro iniziali, ma col nome del loro cane, con una data importante. Vogliamo stabilire un rapporto affettuoso con ciò che abbiamo ed è diffuso il desiderio di qualcosa che sia fuori dal coro. Va mai in centro a passeggiare? Vedrà tanti negozi di abbigliamento con modelli simili per forme e colori. Per noi, andare contro le tendenze è imperativo. Forse nasce dal fatto che sono state cinque donne a mandare avanti l’azienda, in un mondo dominato dai maschi.

Mi sta dicendo che le donne sono più coraggiose degli uomini?
No, le sto dicendo che mia nonna Adele e le sue figlie si sono dovute inventare un ruolo in un mondo che guardava alle donne come clienti, non come colleghe.

Primo e peggior lavoro in azienda?
Il primo lavoro pagato - perché da bambina raccoglievo gli spilli con una calamita appesa a un nastro - è stato incartare i pacchetti per i regali a Natale, in boutique. Il peggiore? La centralinista. Un incubo. Ho implorato tutta la famiglia di farmi smettere...

Da dove arriverà il nuovo?
Dalla scienza.

Di che nazionalità potrebbe essere un nuovo stagista?
Nessuna preclusione, ma risponderei: l’Africa. Sono tornata da un viaggio in Kenya con mia sorella Ilaria, che lì fa confezionare le borse della sua linea (alias Carmina Campus, ndr). L’Africa è così poco allineata con l’Occidente che, se vorrà mettersi alla pari, lo dovrà fare con un salto tanto radicale da mantenere intatta, per paradosso, la ricchezza della sua manualità.

Quando vede un Fendi tarocco, pensa sia un segno di successo o le dà fastidio?
All’inizio ne ero divertita. Ora ne sono irritata. Se penso a quello che c’è dietro questi falsi, ho i brividi. Comprare un originale significa anche non sfruttare ulteriormente bambini, persone povere che lavorano per organizzazioni criminali. È una guerra che sostengo anche per i cd e i dvd.

Il nuovo profumo si chiama Fan di Fendi. Che cosa vuol dire essere un vostro fan?
Condividere la passione per la curiosità senza dimenticare quello che siamo stati. In fondo chi è fan di Fendi fa parte di una grande famiglia, come la nostra. E accetta i nostri valori: fare un passo indietro nei consumi rispetto a chi, come i cinesi o gli indiani, non ha la nostra storia di consumatori, e lasciare spazio a quei nuovi mercati che non hanno vissuto quel che abbiamo vissuto noi.

Riesce a conciliare tutte queste riflessioni etiche con il suo lavoro?
Sì, con grandi difficoltà interiori.

Come si vede tra vent’anni?
Piena di bisnipoti, a dar da mangiare alle mie galline in campagna.

Mai pensato di entrare in politica?
No. Grazie. No.

A cinquant’anni è già nonna: angosciata?
Felice?Felicissima. È il famoso “effetto sorpresa”. Lo mettiamo sempre nella nostra moda, vuole che ce lo facciamo mancare in casa?

scritto da Antonio Mancinelli

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Silvia Venturini Fendi

Modern Primitives a Design Miami nel 2010, in collaborazione con Aranda/Lasch.

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Fendi Selleria

Il futuro è nell’artigianato? Negli anni 90 Silvia Venturini Fendi lancia la linea Selleria, costituita da pezzi prodotti in serie limitata e numerati, interamente tagliati, assemblati e cuciti a mano da maestri sellai. «Sono creazioni destinate a sfidare il tempo mantenendo intatto il loro dna», dice l’imprenditrice-creativa. Che continua: «La Peekaboo e la Firenze Bag sono modelli di borse che vendiamo moltissimo nella versione Selleria, perché possono essere personalizzate dal colore della pelle alle parole da incidere sulla targhetta interna».

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Silvia Venturini Fendi

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Palazzo Fendi

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Fendi

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Fatto A Mano For The Future

Il progetto artistico che porta delle installazioni intineranti nelle boutique Fendi di tutto il mondo.

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Silvia Venturini Fendi

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Palazzo Fendi

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Silvia Venturini Fendi

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Silvia Venturini Fendi

Design Vertigo, nel 2010 nel quartier generale di Milano.

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Silvia Venturini Fendi e Antonio Mancinelli

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