E quindi, il terreno su cui la politica si batterà negli anni a venire sarà il tabù delle mestruazioni? Ultimamente se l'è chiesto anche il New York Times, e se una domanda se la pone il NY Times è già fenomeno sociale. Forse perché è l'ultimo scoglio rimasto dopo decenni di battaglie per l'autodeterminazione femminile? O perché quando i diritti civili già acquisiti barcollano, il gioco si fa duro e la posta in gioco si alza sempre di più verso l'innominabile? Fatto sta che mentre ancora in troppi, da adulti, si chiedono perché le donne hanno il ciclo (e la colpa se non lo sanno non è loro, ma del tabù stesso che impedisce di parlarne), fra il 2016 e 2017 negli Stati Uniti si sono accesi scambi infuocati su Twitter fra donne anche molto autorevoli e uomini negazionisti dei dolori mestruali. Ovvero, signori secondo cui il ciclo doloroso sarebbe un’invenzione delle donne per trarne dei vantaggi sociali. Che la polemica per i maschi fosse storicamente inedita si capiva anche dai commenti di alcuni convinti che il sangue mestruale avesse a che fare con la vescica (ancora, colpa del tabù, non loro). L'imbarazzante vicenda è andata avanti un po’, finché una ricerca neurologica ha dimostrato che i crampi di quei giorni possono essere paragonati solo a un attacco di cuore. E i giochi si sono chiusi.

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Quasi in contemporanea, in Italia, un gruppo di deputate di centrosinistra cercava di proporre una legge sul congedo mestruale per quelle particolarmente sofferenti. Che no, non ha fatto un passo avanti. Poi c’è il cinema. Bollywood ha sbancato negli ultimi mesi con il film Pad Man, ispirato alla storia vera di Arunachalam Muruganantham, l’attivista che introdusse in India il commercio dei tamponi (no, non sappiamo chi abbia invento gli assorbenti). Poi: alla cerimonia degli Oscar 2019 il documentario di 26 minuti Period. End of Sentence, del regista Rayka Zehtabchi, concorre nella categoria docu-cortometraggi raccontando l’arrivo di un distributore di assorbenti in un piccolo villaggio indiano, che ha azzerato le infezioni portate dalla scarsa igiene e ha permesso alle ragazze di non assentarsi da scuola per 5 giorni al mese, cambiando tutto lo scenario collettivo. Da noi, a Natale 2018, è tornata per l’ennesima volta a galla la polemica sull’Iva al 22 percento applicata sul prezzo dei tamponi, la fascia riservata ai beni di lusso, mentre quella sui tartufi è stata abbassata al 5 percento. Qualcuno ha ricordato quando il parlamentare Pippo Civati era stato deriso (molto più che per la proposta del congedo mestruale) quando ha osato chiedere di abbassarla. In Italia non si riesce proprio a liberarsi della famigerata tampon tax, quel sovrapprezzo ingiusto su un bene di consumo di cui le donne non possono fare a meno, anche perché i maschi non riescono a farsene portavoce, se non per proposte ridicole.

Non si sa se tutto questo interesse vada preso come un onore, o se dobbiamo mostrarci un po’ perplesse. Col nuovo millennio in stato avanzato, pronto per i suoi primi 20 anni di vita, un argomento del genere dovrebbe essere superato da un pezzo. Invece le battute sul ciclo mestruale sui social si sprecano e siamo ancora qui a parlarne per sinonimi - quando siamo in età fertile -, e a fingere di averle ancora, quando arriva la menopausa, per non svelare l’età. I nodi da sciogliere, riguardo le mestruazioni, sono tanti e vari e la scelta sconfina in campi diversi della vita. Quello che riguarda tutti, uomini e donne, è il problema ecologico. Si calcola che nella sua vita fertile una donna può consumare in media 11mila tamponi, fra interni ed esterni, e la maggior parte di questi non è prodotto in materiali ecocompatibili. Per cui vanno a ingrossare le discariche insieme ai pannolini dei neonati e i pannoloni della terza età (per i quali in molti comuni c’è il conferimento speciale). In mancanza dell’educazione sessuale, l’educazione all’uso della coppetta mestruale, che è la soluzione più pulita e sostenibile, entrerà a far parte dei programmi politici? Accantonando la questione ambientale, 11mila assorbenti significa che una donna, come ci fa sapere ancora il NY Times, trascorre in media 2,535 giorni della sua vita con il ciclo. La domanda è: perché una naturale funzione del corpo sia ancora un tabù ovunque, tanto che su Google una ricerca molto frequente è "mestruazioni sinonimo", come se si cercassero modi non imbarazzanti di dirlo (le mie cose, il mio periodo, il marchese). Non c'è niente da ridere, se si pensa al caso limite di inizio anno, in Nepal, dove non è passata inosservato (per fortuna) il dramma di una giovane donna segregata in un capanno durante il ciclo, considerata impura per una tradizione del villaggio, morta soffocate con i suoi due figli nel tentativo di scaldarsi con un fuoco.

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Senza arrivare al limite della provocazione messa in atto da quelle che si lasciano macchiare volutamente i pantaloni per protesta (detto free bliding, con effetto shock soprattutto sulle atlete in gara), la cosa interessante è che a dare una mano per picconare e infrangere il tabu, a parte le donne stesse, sia attualmente la comunità Lgbt, in cui non è difficile sentirne parlare senza eufemismi. Manila Luzon, concorrente del talent per drag queen RuPaul’s Drag Race ideato dalla famosa drag degli anni 90, ha denunciato sdegnata alla stampa che la sua esibizione in un costume che imitava un grosso assorbente è stata censurata. “Ci tenevo molto, per me era una celebrazione della donna attraverso una delle sue esperienze legate alla femminilità”, ha detto Luzon. Il concetto, a livello globale e spiegato ancora dal NY Times, è che i sostenitori di questa mozione “ciclo mestruale e politica” spingono per il riconoscimento del diritto di una donna a gestire il proprio periodo con dignità”. Una sorta di "equità mestruale nel dibattito pubblico”. La quadratura del cerchio? Forse l’ha trovata già il comune inglese di Brighton e Hove, che ha inserito nei programmi scolastici – per maschi e femmine – nozioni sul “funzionamento” delle mestruazioni, e su quali siano le difficoltà incontrate dalle ragazze, ma anche transgender o di genere non binario con il ciclo, quando le possibilità economiche della famiglia sono così ristrette da non poter comprare gli assorbenti. Insomma, a non prendere in giro una compagna se si macchia i pantaloni, e a non parlarne con eufemismi. Peccato che la notizia sia rimbalzata in giro per il mondo viziata dal clickbait, fra le insinuazioni che a Brighton si insegni ai maschietti che “anche loro possono avere il ciclo”, per la famigerata “teoria gender”. Di strada da fare ce n’è tanta, di dice in questi casi. Ma forse sarà il 2019 l’anno in cui il navigatore dirà finalmente: “hai raggiunto la tua destinazione”. Ma ci andrà benissino tutto, persino se la politica dovesse sfruttare il tema per un tornaconto, come capitò per il suffragio universale italiano, nel 1945.