Tema: body positivity. Svolgimento: abbiamo un problema. Anzi, a essere onesti, forse i problemi sono più di uno. Nel movimento sviluppatosi quale controparte all'estetica della modella ai limiti della magrezza sono nati e cresciuti diversi nodi da sciogliere. Inizialmente al movimento body positive dobbiamo piccole conquiste che sembrano ventate di futuro: la diversità delle taglie e delle forme, l'ampliamento dei colori e toni della pelle, la gender fluidity ma, concentrandosi principalmente sul peso e l'aspetto estetico, sul "voglio bene al mio corpo anche se non è perfetto" la body positivity è diventata uno strumento di marketing a doppio taglio. E ha monetizzato in automatico, spingendo sulle stesse insicurezze che la filosofia positiva voleva sradicare. "Anche se" contiene i germi dell'ambiguità negativa, premette che il corpo così com'è abbia realmente qualcosa che non va. Lo rimette al centro dello scontro, diventa strumento commerciale esclusivo e dimentica deliberatamente chi è già discriminato: le persone grasse (disprezzate, viste come malate, ignobili, pigre), le persone disabili, le persone con un colore della pelle che non sia bianco. Per questo si comincia a parlare sempre di più di body neutrality e di body ambivalence, una terminologia che accoglie la complessità della parola "corpi".


Il nocciolo delle critiche alla body positivity è concentrato in un pezzo della giornalista Rachel Hawley su The Outline, intitolato I Don't Feel Positive About My Body -And I Shouldn't Have To, dove ha sviscerato la domanda urgente: perché le persone non stanno bene con loro stesse? Perché non amiamo il nostro corpo, in primis, ma lo sezioniamo, cercando difetti che, se non li notassimo, nemmeno ci verrebbero in mente? È il tratto psicologico profondo che la body positivity non riesce a far suo: "Voglio vivere in un mondo in cui alle persone, di tutte le taglie, siano garantite risorse e rispetto in egual misura, e dove nessuno senta la pressione di perdere peso o modificarsi in qualunque modo. Ma personalmente? Voglio essere più magra. E se dovessi allenarmi tutti i giorni a pensare nel modo giusto e a sentire le sensazioni giuste mentre mi guardo allo specchio, forse riuscirei a spostare la montagna del mio ingombrante desiderio di accettazione e persino celebrare il mio peso attuale. Ma non voglio farlo. E, più importante, non dovrei proprio" scrive Hawley. La scrittrice Andrea Long Chu aveva anticipato il punto in una conversazione con Anastasia Berg su The Point Mag, ben più ampia, dove ha specificato il peso del dover essere body positive a tutti i costi. "Non sopporto la body positivity, non la reggo proprio. È un anatema per me. È moralizzatrice. La ragione è che non la sopporto perché mi sento coinvolta, perché quello che dice è che il mio disprezzo per me stessa, e intendo proprio il mio personale, è il risultato della mancanza di presa di coscienza.

No, non è vero, il mio disprezzo per me è prezioso, è una forma di conoscenza di me stessa.

E la sua struttura è fondamentalmente impossibile da correggere con discorsi di presa di coscienza, perché anche il self loathing è una forma di coscienza" spiega Long Chu. Un filino provocatoria come immagine, ma con un fondo di verità. Ci si può addentrare nel discorso elencando le colpe (la fatphobia, paura del grasso, che si estende al terrore di ingrassare, il sessismo, diete ipocaloriche molto stupide). Gli attori in gioco sono tanti, ma il punto centrale è fisso: una persona che non sta bene con se stessa per innumerevoli motivi, dettati a loro volta dal sistema culturale in cui cresce, non può essere screditata o giudicata per voler cambiare un ordine di cose che, così com'è, le causa disagio. Lo specifica Anastasia Berg: "È visto come moralmente deprivante. Sei sbagliato per voler essere diverso, e voler fare qualcosa per essere diverso da quello che sei". Traduzione rapida: c'è spazio per tutti, per chi si ama e chi meno, per chi sta bene così e per chi vuole cambiare. Ma soprattutto, c'è posto anche per chi non vuole essere costantemente messo sotto pressione e osservazione per come vive nel proprio corpo.

Nel concetto di body neutrality la parte moralizzatrice viene meno: non c'è giudizio nei confronti dell'altro, non c'è l'imposizione della positività "così com'è". Se il mio corpo mi fa schifo sono legittimata a cambiarlo per sentirmi meglio, e i commenti vanno ridotti a rumore bianco di fondo. La volontà del singolo vale più del collettivo movimento di benessere anche se. Lo chiarisce ulteriormente Eva Wiseman nella sua approfondita colonna Body positivity has had its day. Let’s find peace with ourselves pubblicata sul Guardian: "Mentre il movimento body positive celebra tutti i corpi che traboccano dalla cintura di ciò che è attualmente accettabile, fallisce nel chiarire le ragioni per cui così tante persone hanno rapporti violenti e amari con i propri corpi, tanto per cominciare". Si può superare lo stallo ormai chiaro della body positivity per comprendere più a fondo la body neutrality, l'ambivalenza profonda e sana che governa il rapporto con il nostro corpo e determina, a cascata, anche i nostri comportamenti come consumatrici: "Qui c'è un sacco di spazio, sia per coloro che si dilettano della loro forza fisica e bellezza, sia per coloro che non vogliono che i loro corpi siano dichiarazioni politiche, siano letti come contenuti di marca, o che addirittura non vogliano pensarci più di tanto" continua Wiseman. Se la strada per l'uguaglianza è ancora parecchio tortuosa, cambiare un po' le idee che governano il rapporto col corpo potrà facilitarne il percorso: non dobbiamo per forza amare il nostro corpo così com'è. Possiamo individuare le zone di tregua e scovare la forza di volontà per modificare quello che ci mette a disagio. L'invito è miracolosamente un sollievo: mettiamoci le cosce in pace.