Quel film, The Danish Girl, non l’ho mai visto. Mi tocca troppo da vicino, so che ci sono ebrei che non riescono a vedere Schindler's List, e per me, veder trattare il tema del cambiare sesso sarebbe lo stesso. Mi chiamo Gabriella, sono nata a Napoli nel 1991, famiglia d'origine modesta, ho due fratelli più grandi e uno più piccolo. Avevo cinque anni quando ho capito di essere nata nel corpo sbagliato, pensavo sempre “io voglio essere una femminuccia!” ma non lo dicevo ai miei genitori. A dieci anni ho cominciato a travestirmi. Quando ero sola in casa di mia nonna prendevo i suoi vestiti dall’armadio e li indossavo. L’ho fatto per tre anni, poi ho smesso perché avevo troppa paura di essere scoperta dai miei. Intanto entravo nell’adolescenza e l'ho trascorsa tra tutti gli squilibri possibili di quell’età, sperimentando la droga e il sesso non protetto, sono scappata di casa: c'era tanta violenza nella mia vita. Mi fingevo il tipico "ragazzino attaccabrighe" di Secondigliano in mezzo a molti altri come me, erano tempi e luoghi in cui se un motorino stava accidentalmente per investirti, chi lo guidava invece di scusarsi si fermava e ti aggrediva. Il mio primo lavoro è stato nel bar di mio zio. mi divertiva schiumare i cappuccini, sognavo di avere un bar mio, stavo imparando un mestiere ed ero contenta di fare la gavetta. A 21 anni mi sono innamorata di una ragazza pugliese. È stata questa storia a consegnarmi le chiavi per aprire la porta della mia nuova vita perché dopo due anni, quando le cose dovevano farsi più serie, mi sono dovuta chiedere: “è questo quello che vuoi davvero?”.


Ricordo bene il preciso istante in cui la mia disforia di genere si è manifestata come un’esplosione nel cervello. Ho iniziato a informarmi sul cambio di sesso in Italia e ho trovato la conferma che potevo vivere una vita alternativa a quella che ho. Ma leggevo anche quante e quali sono le difficoltà che si incontrano nell’intraprendere questa strada: ho provato a immaginare tutti gli scenari possibili, anche il peggiore, quello di finire a prostituirmi. Per cui la seconda domanda che mi sono posta è stata “vuoi sopportare tutto questo?”. E la risposta è stata: “sì”. Per fortuna la prostituzione non è quello che mi stava riservando il futuro ma nel frattempo avrei dovuto affrontare una serie di ostacoli molto alti. Il primo è stato lo zio con cui lavoravo. Mi ha detto di pensarci bene prima di prendere questa decisione, si è offerto di aiutarmi mandandomi da uno psicologo, un suo amico. Ho accettato ma è bastato poco per accorgermi che il dottore era d’accordo con lui, che zio gli aveva chiesto di convincermi che stavo sbagliando, che si trattava di un capriccio momentaneo della mia mente. Gente così andrebbe radiata dall’albo. L’ho ignorato. Ho contatto il reparto di neuroscienze a Napoli e lì mi hanno presa sul serio.

Ho iniziato un percorso psicologico accurato. Mi hanno fatto parlare con due psicologhe diverse, hanno confermato che non stavo facendo i capricci: “il nostro compito è accertarci che tu stia bene mentalmente, escludere ogni altro possibile problema psicologico finché non resta al netto solo la disforia di genere, che non è una malattia ma una condizione”, mi hanno spiegato. Ho preso i fogli con la diagnosi della disforia e organizzato una pizzata a casa con la mia famiglia. C'erano tutti: mamma, papà, le nonne, le zie, lo zio che voleva farmi cambiare idea. Quando ho mostrato loro i fogli e li hanno letti, mio zio è stato il primo a parlare “vorrei che tu fossi morto”. Mio padre, uomo di destra, invece mi ha stupito: “perché non me lo hai mai detto? L'avremmo affrontato insieme, invece di dover fare tutto da solo”. Il giorno dopo zio mi ha affrontato al lavoro: “o smetti con quello che stai facendo, o te ne devi andare”, mi ha detto. E dopo cinque anni ho dovuto lasciare il lavoro al bar. Ma nello stesso periodo è entrato nella mia vita il ragazzo con cui vivo oggi. Ho iniziato gli ormoni e l’iter legale per il cambio di genere. Sono andata dall’avvocato per fare il passaggio dei documenti in base alla legge 164/1982. Questa legge è stata un po’ cambiata da alcune sentenze: prima, per cambiare i documenti, eri obbligata a fare almeno gli interventi “demolitivi”, ora lo status di genere opposto a quello di nascita viene già riconosciuto intentando una causa civile. Il tribunale di Napoli in questo è abbastanza veloce, il giudice mi ha dato ragione in sei mesi.

Era il 2014, avevo in mano la sentenza con cui lo Stato italiano mi autorizzava a cambiare sesso legalmente. Mi sono informata su quali ospedali in Italia eseguono questo tipo di intervento. A Roma mi hanno detto che ci sono cinque anni di lista d’attesa. In un ospedale a Trieste mi hanno detto che potevano fissarmi l’appuntamento conoscitivo da lì a due mesi. Lì ho incontrato un andrologo famoso. Mi ha fatto un’ottima impressione, ricordo che mi ha consigliato il laser per eliminare la peluria ai genitali, come se fosse una cosa imminente: “quando ricrescono nella zona che dobbiamo trattare danno molto fastidio”, mi ha spiegato. Gli ho detto che per legge avrei diritto anche alla mastoplastica e ho chiesto se potevo farla nello stesso ospedale: “per motivi di budget la regione non ci passa le protesi, nemmeno alle donne operate di cancro, si figuri”, mi ha svelato, “se vuole operarsi qui deve pagare l’intervento extra moenia”. Così ho deciso che se devo pagare, il chirurgo me lo sarei scelto io. “Tra un anno la chiamiamo”, e mi ha congedato. Sono rimasta in attesa con pazienza. Ho fatto il laser al diodo sui genitali e sul volto, spendendo duemila euro. Mi sono rifatta il seno a mie spese. Di quell’intervento ho un ricordo confuso. La sera prima è un blackout, avevo paura, ricordo solo il viaggio da Napoli a Roma la mattina. Il mio compagno è benestante di famiglia e generoso, abbiamo scelto un chirurgo che opera le attrici, i famosi. Erano tutti gentilissimi, magia del denaro. Il dottore, mentre ero sul lettino prima dell’anestesia, mi ha chiesto: “che tipo di seno vuole?”. Ma come, me lo chiede ora? Ho pensato. Gli ho risposto, e poi il buio.

Dopo l’operazione sono rimasta sotto morfina per 24 ore e mi sono risparmiata la fase acuta del dolore. Quando mi giravo su un fianco, i primi giorni, mi sembrava che qualcuno mi stesse versando sul petto un bicchiere d’acqua. Dopo una settimana, quando ho potuto vedere il mio seno per la prima volta ero scontenta, mi pareva tutto sbagliato. C’era tanto spazio fra l’uno e l’altro ma non mi sono persa d’animo e ho adottato i reggiseni a mezza coppa, che riavvicinano. Non sapevo che poi si assesta,tutto con il tempo, e non ho mai più avuto problemi. La mia trasformazione è proseguita con la dieta, ho buttato giù qualche chilo, pesavo troppo. Passato un anno, però, la chiamata dall’ospedale non arrivava. Ne è passato un secondo. All’inizio del terzo anno, ormai ero andata a vivere in Sicilia con il mio ragazzo, mi hanno chiamato il 2 gennaio: “devi essere a Trieste tra sette giorni a fare l’incontro preliminare per la chirurgia”. Prenotando così a ridosso ho speso molto di viaggio e albergo, 500 euro per una sola notte lì.

Mi hanno fatto incontrare due psicologhe, si sono accertate ancora che fossi proprio sicura, che non me ne pentirò mai

Mi hanno fatto aspettare fuori per attendere l’arrivo del chirurgo. Quando rientro le ho trovate con le facce funeree: “ci dispiace, la persona in lista prima di lei che aveva rinunciato ha cambiato idea, si opera. L’incontro con il chirurgo è annullato”. Così ho scoperto che operano una sola persona l’anno ed ero di nuovo in lista d’attesa. Mi sono infuriata, le psicologhe si sono stupite: “perché si arrabbia?”, mi hanno chiesto come se aver viaggiato dalla Sicilia fino a lì, con l’idea che il sogno della tua vita si stesse avverando per poi veder cancellare tutto, fosse una cosa da sopportare con leggerezza.

“Non ci possiamo fare niente”, mi hanno liquidata, “la chiameremo”. La mia favola si è arenata così, da allora non sono stata più chiamata. Nel frattempo, mi sono anche sottoposta a una rinoplastica, vivo ancora con lo stesso ragazzo che mi adora e aspetta con me, anche se per lui va bene qualsiasi mia decisione. Quando sono tornata a casa, quel giorno, volevo farla finita, togliermi la vita. Mi chiedo come due psicologhe possano avermi somministrato la notizia con tanta noncuranza. Sono in terapia da un analista che mi aiuta a sopportare ogni mazzata che mi riserva la vita, ma ho scoperto di essere anche abbastanza forte da sopportare. Mi chiedo come l'avrebbe vissuta una più fragile di me. Le amiche mi dicono che sembro serafica, sicura di me, che sono glamour e positiva. So che rispetto a tante altre come me io ho un vantaggio, una vita tranquilla, non ho problemi economici, non ho bisogno di prostituirmi, per cui quello che sento dentro non si vede. La mia famiglia ora mi ha accettato, mi amano. Mio padre non vede ancora bene le trans ma a modo suo mi vuole bene. Mia madre invece, non ha mai fatto un plissé,

al mio coming out mamma ha risposto “e vabbè, invece di una figlia ne ho due”.

Tra l’altro adesso io e mia sorella ci somigliamo moltissimo. Per un po’ ho anche pensato di non operarmi più, ero scoraggiata e rassegnata. Ma è un passo troppo importante. Ora ho deciso di operarmi in Thailandia, ho visto come lavorano lì, anche se devo attendere ancora un po' per avere tutto il denaro necessario. Se domani mattina dovessero chiamarmi da Trieste per dirmi "è il tuo turno, corri qui!", risponderei “no grazie”.

(Il nome e alcuni fatti sono stati cambiati per tutelare la privacy delle persone coinvolte).