Litigare con le tue sorelle per i lavori di casa è uno dei primi ricordi, insieme all’odore della terra di Gatuna, il mio villaggio al confine tra Ruanda e Uganda, e alle interminabili partite di calcio itineranti al ritorno da scuola. Il mio nome è Tindyebwa Agaba, ma tutti mi chiamano Tindy, ho 26 anni. Una volta ho raccontato la mia vita a una giornalista, e lei mi ha fatto notare come sia sempre stata una donna a determinarne i momenti di svolta. Non ci avevo mai pensato. Sono state tutte donne straordinariamente forti e testarde, ma con un amabile senso dell’umorismo. Ho vissuto con mia madre e tre sorelle da quando abbiamo perso nostro padre per l’Aids. L’organizzazione Care International ci aiutava a patto che frequentassimo la scuola. Quando avevo circa dodici anni, nel 1998, il villaggio fu saccheggiato e io e le mie sorelle rapiti da ribelli. Quel giorno ho visto loro e nostra madre per l’ultima volta.

Nel periodo della prigionia mi hanno costretto a combattere nelle milizie. Ho conosciuto i risvolti oscuri della natura umana, ma ho incontrato i migliori amici che mai avrò. Ricordo un anno e mezzo di confusione, perché non avevo idea di cosa sarebbe accaduto. Nessuno sapeva per chi o cosa stessimo sparando o quale fosse la situazione del paese. Avevamo valicato il confine con il Congo, incontrando dozzine di altri gruppi ribelli, di cui ancora oggi non saprei spiegare gli obiettivi politici. Sentivo lingue sconosciute e ho capito subito che impararne qualche parola mi avrebbe salvato la vita, così come rendermi utile al gruppo. Tra gli altri compiti dovevamo cercare cibo, provocare risse per destabilizzare le realtà locali, tenere d’occhio i prigionieri e costruire rifugi in luoghi dove non ci fermavamo mai più di due mesi. Tentare di fuggire significava rischiare tutto. Eravamo in cinque a correre fianco a fianco quella notte, ma solo due di noi sono sopravvissuti.

Mentre il mio amico Gumira è andato in cerca della famiglia, io sono tornato da Care International, dove ho ritrovato Anna, che aveva aiutato la mia famiglia anni prima. Era sorpresa di vedermi vivo. Il confine tra Ruanda e Uganda era un terra senza legge e Care International stava rimandando gli operatori a casa. Quando Anna disse che mi avrebbe portato all’estero pensavo intendesse un paese confinante. Sono sceso dall’aereo su suolo britannico. Dopo tanti anni ancora mi colpisce l’impegno di Anna nei miei confronti e non so come sia riuscita nel suo piano, visto che non possedevo documenti. Sono certo l’abbia fatto per amore, perché sapeva che sarei tornato nelle milizie, l’unico posto dove un giovane uomo senza famiglia potesse ricevere cibo e protezione. Dopo una notte in albergo, Anna mi ha lasciato agli uffici dell’immigrazione a Londra. Non l’ho più rivista, ma col tempo ho pensato volesse proteggere la sua identità dalle conseguenze legali del suo gesto, altrimenti mi avrebbe dato modo di contattarla ancora.

In quell'ufficio erano seduti altri ragazzi senza status né documenti: nessuno sapeva come registrarci. Ho ricevuto ospitalità per qualche giorno, finché mi sono ritrovato a dormire in Trafalgar Square per cinque notti. Non parlavo che qualche parola di inglese appena sufficiente per chiedere cibo. Ero con altri nella mia situazione, fino a quando alcuni operatori di Refugee Council, un’organizzazione che sostiene i rifugiati, ci hanno tolto dalla strada. Mentre ero ospitato in ostello, in attesa di chiarire il mio status, frequentavo lezioni di inglese. La nostra insegnate Stephanie credeva fortemente in me, proprio in un momento in cui io non credevo in nulla.

Tre mesi dopo il mio arrivo, a una festa organizzata da Refugee Council per il Natale 2003, ho incontrato un’altra donna speciale: Emma era una bellissima bionda dal “sense of humour” pungente. Fidarmi di nuove persone è sempre stato il mio problema. Emma, però, trovava il tempo di farmi una telefonata, invitarmi a fare una passeggiata per esercitare il mio inglese o a pranzo, dove incontravo sua figlia Gaia e sua madre Phyllida. Non pensavo sarebbe stata un’amicizia duratura, ma col tempo ci siamo avvicinati. Nel 2005, quando il Westminster City Council era mio responsabile legale, Emma si è accordata per prendere parte alle decisioni che mi riguardavano attraverso quella che si chiama tacita adozione. Vivo con la sua famiglia da quel momento. Uscendo con Emma mi rendevo conto che le persone la trattavano diversamente e volevano sempre scattarle fotografie. Per non parlare di tutti gli eventi mondani. Ero curioso, ma non osavo chiedere. Finché a scuola abbiamo visto Molto rumore per nulla di Kenneth Branagh, dove ho riconosciuto lei e alcuni vicini di casa. Mia madre Emma Thompson non aveva ritenuto di nessun interesse accennare al suo lavoro di attrice a un ragazzo che del cinema conosceva solo Rambo. Anche quella volta disse solo: «Oddio, quel film è di un sacco di tempo fa!».

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Tindy ed Emma.

Poi è arrivata Annie, che è stata determinante per il mio futuro. Stephanie si era affannata a chiedere ai college se potessi frequentare le lezioni, ma senza successo. Annie insegnava nel nord di Londra e divenne una specie di tutor personale: seguivo le sue lezioni come studente ospite, mentre nel tempo libero studiavo con lei. Non mi ha mai detto frasi come “voglio che tu vada al college”, perché mi lasciò il tempo per capire che era quello che volevo. A quattro mesi dagli esami di ammissione mi ha detto di pensarci seriamente. Annie ha dato il via alle mie ambizioni.

Non vivemo al campus, ma preferivo tornare a casa ogni sera. Sentivo che il mio accento teneva distante le persone ed ero felice solo quando studiavo con Annie. Scienze politiche e diritto erano le mie preferite: mi affascina come gli esseri umani organizzano le società e i diversi concetti di giustizia. Per questo dopo la laurea in relazioni internazionali, decisi di prendere un master in Human Rights Law. Lì ho conosciuto Sinyama Charity dallo Zambia che è stata la mia migliore amica per quell’anno e mezzo di studi. Era una mente stimolante, che viaggiava controcorrente, sono arrivato a fidarmi di lei come di pochissimi altri. Abbiamo festeggiato insieme il giorno della laurea, ma dopo poco è rimasta coinvolta in un incidente mortale in Zambia. Mi viene da dirle: «Stupida, che casino hai combinato!».

Durante l'estate ho sempre lavorato, lavorato. Ho anche avuto un super impiego da Bloomberg, non potevo credere quanto mi pagassero. Nel 2009 sono stato in Cisgiordania a lavorare con organizzazioni locali e alla vigilia della rivoluzione del 2011 mi sono trasferito al Cairo per una ong che collaborava con l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, che arrivavano in città principalmente dal Corno d’Africa. Circa un anno dopo ho fondato una ong usando i miei risparmi. La maggior parte dei migranti non vuole fermarsi in Egitto ma spera di essere accolto in altri paesi, una volta ottenuto
lo status di rifugiato dall’Onu. Spaventati e soli in un paese straniero, senza parlare la lingua del posto: era facile per me connettermi con loro. Abbiamo creato uno spazio per dare consulenza legale e un luogo di ritrovo, dove esprimersi durante le serate teatrali e musicali. E per acquisire sicurezza prima di affrontare il temuto colloquio con l’Onu, da cui dipende la loro vita. Non c’è momento più bello per me se non vederli trasformarsi da anime ferite in risoluti esseri umani. Sono andato via da poco perché l’organizzazione cammina ormai sulle proprie gambe e sono in attesa di ottenere le licenze per aprire una ong in Liberia, dove una squadra sta già lavorando alla logistica con l’aiuto di Action Aid. Raccoglierò fondi dai risparmi e dagli amici per un progetto dedicato a giovani che vogliono iniziare un’attività. Mia madre Emma è sempre al mio fianco, ma non direbbe mai “dovresti fare questo, non dovresti fare quello”: preferisce sostenere le mie decisioni piuttosto che influenzarle.

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Emma Thompson con il marito, la figlia e il figlio adottivo Tindy.

Spesso mi chiedono se mi guardo mai indietro. Prima di addormentarmi penso agli amici che ho perso, ma anche a quelli appena incontrati. Le persone del mio passato contribuiscono ancora alla vita di oggi. L’esistenza umana è pazza, ma ha una bellezza profonda che tutti dovremmo assaporare: dolore e perdite fanno parte del pacchetto.

Testimonianza raccolta da Laila Bonazzi.