Quella di Brittany O'Neill è una storia che comincia sul divano di un appartamento dell’Upper West Side di Manhattan. È il 2011 e Brittany ha solo 28 anni, ma ha già la vita piena di delusione. Il lavoro in una compagnia teatrale un po’ scalcinata di Broadway non è esattamente spumeggiante e invece di darle direzione la fa sentire immobile. La vita sociale pure peggio, per non parlare di quella sentimentale: è single da non ricorda neanche più quanto, con il risultato che le serate le trascorre spesso in casa, in compagna di una bottiglia di rosso. Niente di patologico, ma il fisico comincia a risentirne, i chili in più si stanno accumulando, e non c’è nulla come sentirsi sovrappeso e poco piacente per farla convincere che non vale la pena neanche accettare quei pochi inviti che arrivano.

Lavoro, alcol, cibo scadente. Il classico circolo vizioso, condizione comune a tante giovani donne

Parlando con l’amico Paul Downs Colaizzo, aspirante regista, Brittany ammette di essere nel bel mezzo di una crisi esistenziale, una di quelle situazioni dalle quali ci si rialza solo con qualcosa di clamoroso. Ad esempio, mettendosi a correre. In fondo è l’attività fisica meno costosa e alla portata di tutti che esista, non ci sono scuse di mancanza di soldi, orari, attrezzatura. Armata di un paio di scarpe da ginnastica neanche troppo adatte allo scopo, il giorno dopo Brittany inizia. Un isolato, prima di schiantare al suolo distrutta e sudata. Un “block” come si chiamano in inglese ovvero 264 piedi ovvero 80 metri. La prima volta, in quel pomeriggio del 2011, Brittany scende in strada e corre la miseria di 80 metri. Il giorno dopo ne corre altri 80. Il terzo giorno raddoppia. Tre mesi dopo corre la sua prima gara, una dieci chilometri a Central Park. All’arrivo non c’è la folla che grida il suo nome, non ci sono bandiere né festeggiamenti, ma la sensazione di aver concluso qualcosa di buono per se stessa è elettrizzante.

“Per una volta non mi sono sentita una perdente”

Avanti veloce qualche anno e dopo un infortunio, un’operazione e allenamenti su allenamenti, nel 2014 Brittany è una degli oltre 50 mila che ogni anno finiscono la maratona di New York. In una giornata freddissima e ventosa, arriva al traguardo con il tempo di 3 ore 55 minuti e 57 secondi, sotto il limite delle quattro ore che si era imposta. Questa volta ad attenderla ci sono gli amici che le fanno festa, c’è Paul che l’ha sempre incoraggiata in tutti questi anni e c’è anche un marito che ha sposato solo un mese prima durante un matrimonio gioioso ma di cui dice:

“no, non è stato il giorno più bello della mia vita. Quello è quando ho tagliato il traguardo”

Cristina, Andrea, Ilaria, Federica, Jennifer. Sono tante le Brittany del mondo, in Italia, a Manhattan, ovunque. Donne che hanno scoperto la corsa da adulte, che non sono mai state atlete, che hanno cominciato a correre per sfida personale, per cambiare qualcosa della loro vita, per vincere la pigrizia, e che nella corsa hanno trovato motivazione, gioia, scopo, amicizia. Certo, non tutte le storie diventano un film. Brittany non si ferma più arriva in Italia su Amazon il 15 novembre, diretto proprio da Paul Downs Colaiazzo, colui che ha trasformato la vita della sua migliore amica (sullo schermo interpretata dall’attrice comica Jillian Bell) in una pellicola da premi. Presentato al Sundance Festival, il film lo scorso gennaio ha ottenuto il Premio del Pubblico e ottime critiche. “Da quando è uscito il film ho incontrato molte persone con storie simili che hanno iniziato a correre per riprendere il controllo sulla propria vita, stanchi di sentirsi insoddisfatti di loro stessi. Persone di ogni razza e ceto sociale che mi hanno davvero ispirata”, racconta al telefono da Londra. Oggi è una personal trainer e nutrizionista e usa la sua esperienza per motivare i clienti, molti delle quali donne. Il successo del film, dice, è perché in lei si immedesimano in tante. “Forse perché abbiamo più pressioni rispetto al nostro corpo. Quando ho corso quell’isolato la mia motivazione era semplice: piacermi di più. Non mi piacevo e non sapevo perché, ma sapevo solo che dovevo cambiare”. Un cambiamento che spesso non è solo esteriore, ma anzi, arriva giù, negli anfratti più profondi della personalità.

Quando ho corso quell’isolato la mia motivazione era semplice: piacermi di più

Cristina ha cinquant’anni, un lavoro importante in una casa farmaceutica a Manhattan, due figli e una passione: correre e aiutare altre donne ad avvicinarsi alla corsa, soprattutto quelle che fanno parte del New York Italian Women, un gruppo di italiane residenti a New York. “Ho iniziato nel 2010, dopo i peggiori due anni della mia vita”, mi dice davanti a un caffè. Nel 2008 perde il marito per colpa di un glioblastoma. Nel 2009 le viene diagnosticato il cancro al seno. Il tempo di finire le cure, si infila le scarpe e non si ferma più. “Tutti mi dicevano di fare yoga che fa così bene. Ci ho provato, ma era peggio: nei momenti di meditazione il mio cervello pensava a mille cose contemporaneamente e invece di rilassarmi mi agitavo ancora di più. Con la corsa no: quando sono per strada e sto faticando, la mia mente pensa solo a come superare i prossimi cento metri, poi i cento ancora successivi, poi quelli dopo ancora e così via. Quando corro è come se vedessi la mia vita dall’alto, sono in grado di pianificare, tutto mi sembra più gestibile, sotto controllo, nelle mie mani”. Con le altre runners expat italiane ha creato una chat di gruppo che serve sia come strumento motivazionale sia come contatto quotidiano tra quelle che ormai sono amiche.

“Corri contro te stessa, ma non sei mai sola”

mi dice un’altra partecipante che preferisce rimanere anonima e che si sta allenando per la mezza maratona. “Grazie alla corsa ho smesso di prendere gli psicofarmaci che prendevo dal 2014, quanto a un familiare è stato diagnosticato un tumore e io sono caduta in depressione. Correre mi riempie di endorfine: spesso mi fanno male le ginocchia, ma il corpo nell’insieme sta bene. È una sfida, ma non mi sento giudicata, anzi: i runners tra di loro si incoraggiano e si sostengono, ti senti parte di una grande famiglia ed è una cosa davvero magica”.

“Quella di quest’anno per me sarà probabilmente l’ultima”, mi dice Andrea, cinquantenne consulente di pubbliche relazioni, mamma a tempo pieno. Ha iniziato a correre dopo i 40 anni, ma una maratona di New York l’ha già in curriculum, nel 2016, quando suo figlio aveva solo 11 mesi. “Durante la gravidanza non ho potuto correre ed è stata dura. Nuotavo, ma non era la stessa cosa. La corsa mi apre la mente, mi permette di pensare a cose a cui non ho tempo di pensare durante tutta la giornata. È un momento tutto mio, prezioso, irrinunciabile, di cui sono grata in prima istanza al mio corpo che ancora mi permette di sostenere un simile sforzo. È una sensazione incredibile, una gratificazione immediata, il modo migliore per staccare da tutto e da tutti. E non importa quanto stanca sono dopo aver corso: mi sento comunque meglio di prima”.