Per 45 anni Roman Opalka dipinse (e contò) il tempo. È stata la sua missione d’arte e di vita, covata a lungo, quasi inconsapevolmente, e poi sbocciata all’improvviso. Come tutte le grandi idee. Origini polacche e natali in Francia, più un andirivieni tra i due Paesi e un periodo in Germania dove gli Opalka fuorno deportati in un campo di lavoro nel 1940 – fino alla fine della guerra – l’artista concepì il suo progetto in una mattina di primavera, mentre aspettava la prima moglie, Halszka Piekarczyk, al caffè dell’Hotel Bristol di Varsavia. Il concept era e rimase fino alla fine dei suoi giorni questo: rappresentare qualcosa che non è misurabile, lo scorrere del tempo, riuscendo a restituirne forma visiva attraverso il numero. Un numero elemento base di una sequenza continua e potenzialmente infinita.

Room, Beige, pinterest
Roberto Marossi. Courtesy BUILDING
Installation view della mostra Dire il tempo - Roman Opałka.

A partire dal 1965 Roma Opalka incomincia a contare da 1 all’infinito e lo fa dipingendo sulla tela, con un pennello a punta fine, numeri in progressione fino a saturare l’intera superficie del quadro. Finito uno, ne incominciava un altro, riprendendo dall’ultima cifra per proseguire la numerazione dall’alto, a sinistra, sulla nuova tela. Un metodo fisso, che evoca, anche nei particolari, la precisione matematica. Ogni opera, da allora in poi, si intitolerà Détail. Ogni quadro avrà, sin dall’inizio, rigorosamente lo stesso formato (196 x 135 centimetri) identico alle dimensioni della porta dello studio dove l’artista lavorava. I numeri bianchi sono dapprima scritti su fondo grigio, che poi, progressivamente, dopo aver dipinto il primo milione nel 1972, Opalka continuerà a sbiancare aggiungendo a ogni cambio di tela un 1% di bianco. E così via, fino ad annullare, inevitabilmente, il contrasto necessario per leggere i numeri candidi sul loro supporto.

Tre anni più tardi dal primo Détail, nel 1968, Opalka decide di registrare su nastro la propria voce che pronuncia in polacco i numeri mentre li dipinge. Inoltre, nel 1972, l’artista aggiunge un nuovo importante tassello al suo programma Oplaka 1965 / 1-∞. Inizia infatti a rappresentare il fluire del tempo anche attraverso l’immagine, abbinando un autoritratto fotografico in bianco e nero realizzato alla fine di ogni sessione di pittura. Sono scatti in cui cerca di mantenere fissi alcuni elementi: l’espressione, la distanza dall’obiettivo, lo sfondo e la camicia bianca, per fare emergere le trasformazioni “scultoree” sul suo volto, causate dallo scorrere degli anni, vero soggetto anche di questa serie.

Tutto ciò (e molto altro) è raccontato da Roman Opalka. Dire il tempo, progetto espositivo in due capitoli con sede in due diverse città. Curato da Chiara Bertola, si svolge a Milano negli spazi di Building (fino al prossimo 20 luglio) e a Venezia, nelle sale della Fondazione Querini Stampalia (fino al 24 novembre). Building sfrutta la dislocazione su più piani per tracciare un itinerario ascensionale, che non segue una logica cronologica, ma espressiva. Con molte suspance. Un gioco di tensione, che rivela sempre qualcosa di nuovo. Varcata la soglia, il cuore: alcuni Détail, che dal vivo sono calamite. Visti a distanza ravvicinata commuovono quando lasciano cogliere i piccoli cedimenti nel tratto, qua e là stanco e impreciso, così dichiaratamente umano. «A volte sbagliava, ma proseguiva e quindi nella stessa tela si possono individuare piccoli errori qua e là», spiega Bertola. Osservati più da lontano, i Détail portano altrove. Il calcolo sfuma nell’arte e diventa quintessenza della poesia. I numeri riportati pazientemente a mano nuda tradiscono qua e là una tinta meno calcata per la fatica, oppure a tratti più intensa perché il pennello era stato appena intinto nuovamente nel colore. Gesti fragili, umanissimi, che da lontano si percepiscono come un moto impercettibile di onde marine. Accanto, alcune opere precedenti, a partire dagli esordi, meno conosciuti. C’è un primo disegno accademico, Les Nuages del 1951, ci sono gli Études sur le mouvement del 1959-1960 e un Chronome del 1963. Hanno già in nuce un comune denominatore: la propensione a cercare un ritmo nella frammentazione dell’immagine.

Si vede bene nella sala dove si possono ammirare le acqueforti della Descriptoins du Monde, con i soggetti figurativi (grovigli di volti), ma parcellizzati in una folla, fino quasi a diventare polvere. E, soprattutto, nel piano dedicato alla serie dei Fonemats del 1964, esposta per la prima volta. Le opere a tempera su carta applicata al legno mettono in scena un ritmo. Affisse alle pareti insieme, una dopo l’altra, suggeriscono, attraverso marcati segni chiari su fondo nero, una partitura di cui si riesce a cogliere il ritmo e le pause, immaginandone il timbro sonoro. Nel domino di ambienti, dove si possono ammirare anche 7 Cartes de Voyages, si entra nel mondo di Opalka, in un tempo evocato, contato, scandito – anche dalla voce registrata e da 35 autoritratti fotografici – eppure sospeso, forse perché infinito.

Il percorso di conoscenza critica di Roman Opalka prosegue con il capitolo veneziano, che riunisce e presenta le due opere fondamentali dell’intero programma Oplaka 1965 / 1-∞, chiudendo simbolicamente il cerchio. Alla Fondazione Querini Stampalia sono esposti l’Alfa e l’Omega, ossia il primo e l’ultimo Détail, insieme per la prima volta. «Poter cogliere il disegno completo di quella trama che l’artista un giorno ha deciso di tracciare è un’emozione fortissima e commovente. Il progetto che si manifesta in modo esplicito porta in sé la tragicità del suo stesso assunto: “lui non c’è più, c’è l’opera compiuta”», afferma Bertola.

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Michele Alberto Sereni
Opera di Roman Opalka in mostra alla Querini Stampalia, Venezia.

Insieme ai due fondamentali Détail è esposta anche una serie di autoritratti fotografici di Opalka con, in sottofondo, il suono registrato della voce dell'artista. Inoltre è presentato un nucleo di opere di Mariateresa Sartori, artista veneziana, classe 1961, amica intima di Oplaka. L’accostamento ha un significato profondo. I disegni e le immagini fotografiche di Sartori, disseminati lungo il percorso del museo, rivelano le sottili e invisibili trame determinate dal nostro muoverci nello spazio e attraverso il tempo. Al centro, l’imponente installazione Il tempo del suono. Onde: una parete completamente ricoperta di fogli di carta su cui l’artista, con il carboncino, ha tradotto in forma visiva il suono delle onde del mare in tempo reale. L’installazione entra in risonanza con la voce di Opałka mentre pronuncia in polacco i numeri che stava dipingendo. E il pensiero corre a una cifra: 5.607.249. È l’ultimo numero che Opalka tratteggiò, di colore bianco su fondo bianco. L’ultimo prima della fine, arrivata nel 2011.