La Ciociara è una trattoria-pizzeria di stampo brutalista, non nel senso architettonico, aperta da cinquant’anni al Quadraro Nuovo. È un posto che crea dipendenza, anche se, sulle prime, sembra fare di tutto per non fartici tornare. Con una sola, determinante eccezione: servirti su uno stesso piatto sbeccato, come se fossero pietanza e contorno di una stessa comanda, supplì eccelsi e fondamentali lezioni sullo spirito di Roma. Dalla Ciociara, infatti, non vai solo a cena, ma a ripetizione di Roma — in senso stretto — e di realtà — in senso lato.

Si chiama la Ciociara ma non vi è nessuno che provenga dalla provincia di Frosinone

Questa pizzeria è un osservatorio formidabile da cui partire per capire il resto della città o cosa ne resta. È un universo intero, o almeno è il centro di uno, pur trovandosi decisamente in periferia. Uno pensa di essere capitato solo in quel ramo del Tuscolano che volge a Cinecittà, e invece è contemporaneamente in ogni altro quartiere romano che conservi un barlume di autenticità, e anche in diversi di quelli che l’hanno persa. La Ciociara, in via Valerio Publicola 31, è Roma fatta trattoria, come una sfera di vetro con dentro non solo il Colosseo o Fontana di Trevi, ma tutto il Raccordo. Il fatto che, invece della neve, quando la agiti, volino pezzi di guanciale unitamente a schizzi di sugo, non toglie, ma aggiunge fascino.

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Sara Cervelli

Un qualunque ristorante, di norma, anche quando è molto rustico, perfino quando non è del tutto pulito, è un luogo romantico e interessante, perché è dove prendi la cosa più quotidiana che esiste — nutrirsi in un luogo più o meno chiuso, in modo più o meno sano — e la fai in un modo che potrà essere variamente vicino o distante dalla tua abitudine, ma è comunque altro rispetto a te, e non è detto che la distanza che copri fisicamente, per arrivarci, sia la stessa che percorri con lo spirito o con lo stomaco.

La Ciociara fa eccezione. Appena entri, ti senti subito teletrasportato a casa. Solo, non è la tua, ma quella di un altro, e con un carattere decisamente peggiore del tuo. Quest’altro è Mario Fratoni, a un tempo l’impresario e l’attore principale della piccola compagnia d’improvvisazione teatrale che comprende anche le sue due figlie. Romina è bionda e solare, accomodante e comunicativa. Rita è malinconica e tagliente come Liza Minnelli in Cabaret, che ricorda anche nel taglio corto dei capelli nerissimi. Su tutti e tutto Mario, Re Mida dell’alluminio anodizzato — tutto quello che tocca diventa infisso color oro — governa con opacità di policy veterotestamentaria: imperscrutabile e imprevedibile.

Cucina (a svista), sala (con tv a palla) e tavernetta (refugium peccatorum)

Hanno personalità che non potrebbero essere più discordanti, così come del resto sono i tre ambienti principali di cui è fatta la Ciociara: cucina (a svista), sala (con tv a palla) e tavernetta (refugium peccatorum); senza che però siano univocamente assegnati a uno dei tre, non solo per il tempo di una serata ma anche nell’arco di un giro di ordinazioni. E i tre confliggono, si alternano, si sovrappongono tra loro come differenti temi musicali di una sola operetta. Un trio di attori consumati che, ogni sera, all’alzarsi cigolante del sipario che è la loro saracinesca, recitano a soggetto e, siccome conoscono alla perfezione non solo la propria, ma tutte le parti, non si contano le volte che una figlia faccia il padre o viceversa, in un vasto repertorio di caricature e omaggi.

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Sara Cervelli

L’essenza di questo posto è tanto nei dettagli quanto nell’insieme. Per esempio: si chiama la Ciociara ma non vi è nessuno che provenga dalla provincia di Frosinone. In sala la sensazione, una volta fatti accomodare ai tavoli sociali, è di essere trasportati a bordo di un barcone da processione a mare che, al posto della tradizionale statua, fissato a prua su un televisore Samsung, porti un santo a rotazione, secondo l’orario: principalmente Flavio Insinna o Amadeus.

La tavernetta è invece l’esilio per niente dorato (prima e più importante tra le pene da scontare è non trovarvi traccia di alluminio anodizzato), in cui, un po’ per contrappasso dantesco, vengono spediti gli aspiranti clienti che non hanno capito le basi e hanno provato a prenotare un tavolo chiamando al telefono, per poi rimanere senza posto in sala.

Quadrumvirato degli antipasti fritti capitolini: supplì, crocchetta, fiore fritto e filetto di bacca

Una volta smistato, ti viene consegnato un ricco menu che comprende diversi, invitanti primi e secondi. Se ci vai, com’è probabile, il sabato o la domenica, è chiaramente un trabocchetto, perché devi sapere che nei fine settimana non c’è sostanzialmente altro che la pizza e il quadrumvirato degli antipasti fritti capitolini: supplì, crocchetta, fiore fritto e filetto di baccalà. Altrimenti, si ingolfa la cucina. C’è da dire che il menù possiede la rara onestà intellettuale di intitolare una sezione: pesce surgelato. Non ci sono lavagnette coi piatti del giorno, né elencazioni a voce: è tutto autoesplicativo, a parte eventualmente il piatto flagship, gli striscioni alla ciociara, che sono fenomenali e che è consigliabile provare senza farsi troppe domande.

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Sara Cervelli

Quando Mario prende le ordinazioni, non è tanto un oste, il cui cliente ha sempre ragione, ma più un capufficio, che devi compiacere. All’inizio ti senti imbranato come uno stagista alla prima fotocopia. Chiedi una carbonara di sabato e il resto del tavolo sociale a cui sei stato assegnato se la ridacchia dietro i supplì, proprio come colleghi che hanno appena scampato un cazziatone e godono nell’osservare chi lo sta ricevendo adesso, attenti più alla figura che stai facendo che ai piatti loro. Fino a che Mario non si gira dalla loro parte, intimando, impassibile: Se devi tagliarlo con le posate tanto vale che mi dai una pugnalata nel costato. Da capocomico consumato, non esiste al mondo battuta o situazione che lo possa far ridere; salvo nei casi in cui ti sei sporcato in modo particolarmente plateale o irrimediabile.

La pizza scrocchiarella che fanno qui sembra ancora viva per come la mozzarella ribolle, quando te la portano, tipo un’aragosta presentata al tavolo, prima che sia messa fine alla sua sofferenza. Finché non tagli il primo spicchio, per quanto è enorme, pare muoversi e a espandersi nel piatto, fino a lambire col cornicione le posate e il tovagliolo. La paura di non finire è quasi da sushi all-you-can-eat con penale, anche quando hai ordinato solo un fritto e una pizza.

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Sara Cervelli

L’organizzazione è così efficiente che la lezione è, a volte, carpe diem. Ordini, chiedi del bagno, ci vai e, se non torni in tempo, trovi i tuoi amici che mangiano ciascuno la sua pizza più uno, seduto altrove, che mangia la tua, perché altrimenti si sarebbe freddata. A quel punto devi ricominciare da capo. Deve essere la versione ciociara di un nastro trasportatore giapponese.

Ma c’è sempre qualcuno che sta peggio di te. Prendi il ragazzo che sta scattando foto all’amatriciana, noncurante dei bagliori di flash e degli effetti sonori del finto otturatore non silenziato. Questo posto è così lontano dagli itinerari gastrofighetti che ti viene il dubbio che i suoi fiori di zucca fritti, come vampiri, non escano in foto. Ti aspetti che sia solo una questione di secondi perché il foodie sia individuato, afferrato e messo alla porta. E invece Mario lo abbraccia e lo ringrazia, senza chiamarlo per nome, come se fosse un nipote o un vero habitué, e tu lo invidi come si invidia il beneficiario di un parcheggio aziendale immeritato.

"Cessando ogni aspirazione di autenticità, si raggiunge la vera autenticità"

Dalla Ciociara è tutto fatto sul momento, e quindi la riuscita di un’amatriciana conta sempre, tra le variabili, anche l’umore dell’esecutore e il suo stato d’animo rispetto alla tua persona. È un locale estremamente interattivo. Ma per quanto il linguaggio e la narrativa che vi si usano possano essere spesso ugualmente coloriti, la distanza della Ciociara da format come quello trasteverino della Parolaccia, è incolmabile. Da Cencio, infatti, le discussioni possono anche evolversi in un litigio più o meno sincero, ma lo spirito di base è performativo. Al contrario, Mario e le sue figlie non performano un bel niente: se sbagli qualcosa, ti mandano a quel paese sul serio.

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Sara Cervelli

La Ciociara non sarà mai né un pizzeria gourmet, né una di quelle trattorie tipiche, in cui vige la retorica della pura sostanza. Esiste e basta nella sua dimensione, punto. Mario lo dimostra ogni mattina, svegliandosi alle sei per fare duecento supplì a numero chiuso, e ogni sera, lanciando inventive contro chi non comprenda il valore e il calore di un bordo bruciacchiato (gente abituata al forno elettrico). Anche se non lo sa e non gliene importerebbe niente di saperlo, sostiene una tesi importante: cessando ogni aspirazione di autenticità, si raggiunge la vera autenticità. Allo stesso modo, per goderti un pasto dalla Ciociara, il segreto è smettere di pensare di averne il diritto, solo perché sei arrivato fino a lì, solo perché sei disposto a pagare il conto, convincendoti di essere in qualche misura indegno, come Atreyu davanti alla porta delle sfingi nella Storia Infinita.

Il bello di Roma, perfino oggi, è che per ogni cosa bella che ti dà, te ne toglie un paio, che diventano tutto sommato rinunciabili se riesci a dare il giusto valore alla prima, o sei alla terza Peroni ghiacciata.

Capire Roma, se ci fai caso, è abbracciare un nonsenso:

troppo grande e scomposta per entrare in una città, è anche abbastanza piccola da stare in una pizzeria da cinquanta coperti. Impossibile cercare di spiegarla con una logica che non duri il tempo di una capricciosa.

Andare ripetutamente dalla Ciociara non è certo un atto così depravato da costituire un vizio, ma tutto sommato resta abbastanza lontano dall’essere una virtù. È un gesto di coraggio: né più né meno di tanti altri che si continuano ancora a fare ogni giorno in città: come attraversare sulle strisce a piazza Venezia, o fare figli al Tiburtino. A Roma le teenager dei quartieri alti amano dirsi: se ti porta a vedere una mostra del Chiostro del Bramante, e ti propone un selfie davanti alle zucche inneggianti all’amore eterno di Yayoi Kusama, allora è quello giusto. La versione per adulti è portarla a cena, al primo appuntamento, dalla Ciociara. Se non ti lascia, sposala.