All’inizio ho pensato che fosse l’ennesimo termine di moda nel mondo dei foodies. Queer Food? Facile, dai. Glitter, arcobaleni, colori pastello(si), nomi pesantemente allusivi ai piatti in carta come nella peggiore tradizione da bettola. Niente di più sbagliato, e me ne scuso. Per capire cos’è il queer food bisogna far saltare le proprie categorie mentali ed immergersi in un universo estremamente poliforme di libertà di interpretazione e di espressione. Culinaria, of course. Perché ragionare per sillogismi e accostamenti binari renderà il concetto di queer food sempre più sfuggente da comprendere, sezionare e assimilare fino alla corretta digestione. In parte si può provare per contrapposizione, ma anche qui il rischio di non capirlo è concreto. La definizione di queer food è, per sua natura, fluida: per Lukas Volger e Steve Viksjo, che hanno fondato un queer food journal a Brooklyn, Jarry , incasellare il termine è meno importante di tutto il resto. Il queer food si fa. Punto. “Il cibo è una creazione culturale. Come le altre forme, tipo danza o arte, l’esperienza che la persona porta con sé dà forma a quel pezzo. Quindi per me il queer food è la prospettiva queer che si trasla nel cibo che una persona queer prepara” ha spiegato Lukas Volger a Forbes. A incasinare ulteriormente la questione ci si è messo Kyle Fitzpatrick su Eater: “una miscela di ambizione, sensualità e incanto sociale che è innegabilmente, ineffabilmente queer”. Suona bellissimo, ma nello specifico non è che aiuti molto nello stabilire pragmaticamente cos'è il queer food.

Partire dall’analisi semantica del termine queer è già un buon inizio. Per traduzione queer significa “strano”, dissonante dalla norma(lità) stabilita dalle regole sociali, ed è un termine-cappello nel mondo LGBTQ che si porta appresso molte discussioni. Ma in linea generale, è comunque la felice diversità dalla regola. Per estensione, la migliore definizione di queer food potrebbe essere “esplorazione dell’identità attraverso il cibo”, senza scivolare nel marketing spinto di sandwich rainbow o cibo glitter smaccatamente venduto come LGBTQ (alert: lo è pure, ma soprattutto serve a monetizzare il concetto). Secondo il New York Times ormai il queer food è un business a tutti gli effetti, e anche abbastanza onnicomprensivo: è un’utopia temporanea che si basa sull’inaspettato al palato, il gusto strano che colpisce per caso e che funziona egregiamente nell’esperienza culinaria. Per Angela Dimayuga, la chef di origini filippine diventata celebre per il suo approccio fluido alla cucina (e per il no a Ivanka Trump), il queer food include un impegno politico radicale e ha come missione quella di rispettare le differenze, le marginalità, le identità unite nel suo nome: “Il cibo che ritengo più interessante è quello che è guidato da politiche personali e identitarie. Ci sono molte idee da mettere in moto” ha raccontato al NYT. Cibo come gioiosa battaglia e impegno contro chi restringe il campo d’azione agli stereotipi culturali in corso. E non è solo questione di esplorazione di sapori, è anche una sfida alla cucina mainstream, al mondo food dominato dagli chef uomini e da convinzioni ridicole tipo “se non mangi la carne non sei un vero uomo”. Bistecche = virilità. E torniamo indietro di duemila anni di storia (per la cronaca, la massima espressione di mascolinità aggressiva e potente sono i gladiatori, ed erano vegetariani).

Qualcuno, già nel 2002, aveva provato ad accostare il queer food all’effetto nostalgico della camp culture, tema del MET Gala 2019. A 50 anni dalla rivolta di Stonewall, il 28 giugno 1969, che diede ufficialmente il via al movimento di liberazione omosessuale in tutto il mondo, accostare queer food e camp food aiuta a rilevare qualche elemento in comune senza ostinarsi pervicacemente a incasellarli in una gerarchia. Ci sono delle somiglianze, ma non sempre il camp e il queer vanno sottobraccio. Li lega lo stupore dato dal diversivo, non necessariamente l’eccesso teatrale integrante nella definizione di camp. Per il queer food è l’accostamento di sapori inediti a dare nuove sfumature a qualcosa di conosciuto, mentre per il camp è la nostalgia di un passato già eccessivo di suo a dover essere rispolverata in chiave contemporanea. Ciò che li unisce è la sovversione della regola, specialmente per quanto riguarda la convinzione dell'economia domestica eterosessuale: “Prendere in giro la cultura mainstream è un coping mechanism” scrive Fitzpatrick su Eater. Kevin Kopelson, professore all’università dell’Iowa, sottolinea nello stesso pezzo che l’ossessione culinaria camp per gli aspetti mondani della vita eterosessuale (della quale agli etero interessa meno di niente) è proprio il punto centrale della discussione. Valorizzare ciò che nella cultura viene dimenticato, e portarlo ad un livello più alto in grado di dare estrema soddisfazione. Un esempio può venire dallo show culinario della comica americana Amy Sedaris, che desacralizza i punti fondamentali della classica famiglia americana per celebrarla nella più totale assurdità: mescolare e distruggere col sorriso, e con l’interferenza di elementi disturbanti, le convinzioni sugli archetipi classici. Questo è queer.

La radicalizzazione del queer food in USA è stata un atto dovuto contro le posizioni sempre più conservatrici delle istituzioni. Una mano tesa ad aiutare chi ha subito le conseguenze di un potere mainstream dominato da uomini etero ben poco avvezzi ad apprezzare (figurarsi ad esaltare) le differenze. È la comfort zone dove non si viene giudicati/incasellati/massacrati per l’orientamento sessuale. O sfruttati come quota di minoranza di tendenza. “Ci sono locali in cui si lavora per spazzare via la vecchia concezione delle cucine maschili e la cultura dei ristoranti rudi, sudati e fondamentalmente abusivi” scrive Alana Dao sull’Huffington Post. “Assumere staff queer e creare un ambiente caldo e ospitale anche per loro, oltre che per i clienti, è un passo fondamentale per le regole dei ristoranti queer” conclude la Dao. Sul sessismo nelle cucine ci sono stati casi notevoli in tutto il mondo, nonché denunce e cause legali ancora in corso (il più celebre è stato Mario Batali in USA). Avere un ristorante queer significa essere accoglienti e non prestare fianchi o guance a possibili provocazioni distruttive da parte della straight norm. Che animano dentro e fuori le cucine, dentro e fuori le sale. "Nascondevo le emozioni fingendo di essere cool e invitavo qualcuno a fumare con me, come scusa. Spiegavo con più nonchalance possibile perché fosse inappropriato e doloroso farmi domande sui miei genitali, fare battute sugli stupri o promuovere stereotipi razzisti" ha raccontato Charlie Anderle su Bon Appetit, che ha vissuto personalmente da cuoca transgender. Ben più veemente John Birdsall su Vice USA, che pone al centro della queer food culture la questione economica: "I ristoranti sono aziende capitaliste, e nel nostro mondo di proteggere i lavoratori che sfidano le norme di genere è qualcosa che rappresenta una minaccia alla macchina del capitalismo, il primo nemico della queerness. Il modo migliore per proteggere i lavoratori queer è il più antico di tutti: unirci e combattere la discriminazione".

Il dettaglio politico/economico fa la differenza. Le dure prese di posizione di Donald Trump contro i trans e i diritti LGBTQ, la questione delle gender toilets in Oklahoma, e la crescita preoccupante del nazionalismo bianco arrivata anche in Europa, hanno spinto la comunità queer e chi si identifica come tale ad allargare ulteriormente le maglie dell’accoglienza e cercare di proteggere chi sovverte la cosiddetta "norma". Prendendo inevitabilmente posizione contro le iniziative (o peggio le non iniziative) del governo a sostegno dei diversi, delle minoranze, dei dimenticati dall’establishment. La Queer Soup Night a Brooklyn si è impegnata a sostenere i gruppi di aiuto alle persone trans; sull’altra costa del paese, il Cupcake Royale a Seattle versa i proventi del suo gay cupcake alla Gender Justice League di Washington. Un vero Pride da parte degli imprenditori queer che non cavalcano semplicemente l’onda rainbow, ma si impegnano sul serio a sostenere economicamente le cause queer, scrive Adam Moussa su Eater.

Quello che preme più sottolineare è che la queer culture determina il queer food. Che non è cucina femminile o cucina maschile (per fortuna degli chef e di noi avventori, sono concetti davvero molto superati), né voler imporre il queer food come moda a tutti gli effetti, passando dalla parte della capitalizzazione. È un'idea profonda, una filosofia che anima la ricerca culturale queer, non una pura commercializzazione del termine. “La cucina attrae i talenti queer. Significa improvvisare, adattarsi alle sfaccettature della vita per riflettere su un’interiorità capita da poche persone. Stiamo dando forma ad una cultura mentre la facciamo, sporcandoci le mani” spiega Joseph Hawkins, direttore di One Archives nella biblioteca della USC. Il che significa approcciarsi al queer food senza pregiudizi, liberi di fluire, di inventare, creare senza limiti, scegliendo l’eccezionale al posto del confortevole conosciuto. E senza cedere alle lusinghe del marketing un tanto al chilo OPS. "Uno chef etero può scrivere Love is Love con un coulis multicolore su un piatto da unicorni, ma non è queer food. È da ruffiani" conclude Fitzpatrick su Eater. La sperimentazione del queer food ha moltissime facce. E il bello è che nessuna di queste, in fondo, lo definirà mai completamente.