Sono petizioni tutte con lo stesso obiettivo, da fonti diverse, ne riceviamo una al giorno: chiedono di far chiudere i wet market, i mercati in cui si vendono cibi freschi, ma soprattutto animali vivi. Spesso animali selvatici. Sono luoghi in cui si avvicinano tra loro bestie di varie specie, e non è una buona cosa. La leggenda dice che l’epidemia di Coronavirus sia iniziata da un pipistrello cucinato alla brace una sera dello scorso ottobre nelle campagne dell'Hubei, che lo abbia mangiato un signore particolarmente predisposto a fare da trampolino genetico per microrganismi che in un corpo umano non dovrebbero mai entrare. Quel signore si ammalò e morì, ma prima contagiò dieci persone, che a loro volta ne contagiarono altre dieci, e così via. Uno spuntino disastroso, la proverbiale farfalla della teoria del caos che battendo le ali a Pechino provoca l’uragano a New York. La teoria meno fantasiosa e più probabile, invece, è che la potenziale fonte del virus sia stata, nella stessa zona, il mercato all'ingrosso di frutti di mare di Wuhan, la città cinese di cui molti hanno imparato il nome quest’anno, e non lo scorderanno mai più. Un mercato che però vende molte altre specie di animali. Che tutto sia cominciato nell’uno o nell’altro modo, almeno possiamo dire con certezza che nella lista dei sospetti è ormai stata depennata la paranoia dell’arma biologica creato in laboratorio. Fra dimostrazioni scientifiche e confronti storici, è chiaro che tutte le epidemie passate e recenti siano partite da qualche animale trattato in modo improprio, a cominciare dalla peste, venuta dai roditori. L’aviaria, dagli uccelli selvatici alle galline d’allevamento. La febbre suina, che non si trasmette mai dal suino all’uomo ma quando lo fa diventa letale. Ebola, da qualche animale selvatico non ancora identificato (ma di animale si tratta). La Sars, partita dai cuccioli di maiale.

Nei giorni scorsi tutto questo e molto altro è stato raccontato in un lungo articolo virale uscito sul quotidiano indipendente El Diario firmato da Ángel Luis Lara, sceneggiatore e studioso di cinema “il quale, evidentemente forzato a casa, si è messo a studiare la situazione”, spiega Pierluigi Sullo, il giornalista che ha avuto la buona idea di tradurlo per Il Manifesto e di intitolarlo Non torniamo alla normalità. La normalità è il problema. Fra le molte cose interessanti che dice l’articolo, che si fa leggere fino in fondo anche se è lungo, c’è il racconto di una relazione, pubblicata sulla rivista Nature da un gruppo di ricercatori cinesi, in cui si segnalava come “la crescita dei macroallevamenti di bestiame avesse alterato le nicchie vitali dei pipistrelli” e come l’allevamento industriale avesse “incrementato la possibilità di contatto tra la fauna selvatica e il bestiame, facendo esplodere il rischio di trasmissioni di malattie originate da animali selvatici” sloggiati dai loro habitat dalla deforestazione. I mercati di animali vivi ne diventano il distributore automatico. Al momento dell’uscita dell’articolo in italiano, già erano spuntate le prime petizioni su Change.org, AnimalEqulity, PeTa, The Petition Site.

A vendor selling eggs waits for customerpinterest
PHILIPPE LOPEZ//Getty Images


“Secondo gli esperti, il Covid 19 ha avuto origine nei mercati cinesi; i ricercatori ci hanno spiegato che il 70% delle infezioni emergenti, pericolose per gli umani, sono trasmesse da animali, e per questo sollecitano la chiusura dei wet market”, ha detto Norah O’ Donnel al tg CBS News, dove l’espansione della malattia è in ritardo di un mese rispetto all’Italia. “Mettere animali selvatici insieme a quelli domestici destinati all’alimentazione è come spianare una superstrada alle malattie verso gli umani”, ha detto un virologo ospite del tg di CBS. Oltreoceano la pericolosità dell’allevamento intensivo è una sorta di shock per un paese dove, complice il benessere economico, il consumo di carne è il più alto del mondo al pari con l’Australia e l’Argentina (con una media di 186,7 chili l’anno a persona) e gli appelli alla sostenibilità delle star vegetariane sono considerati capricci. Per questo se ne chiede la chiusura in Cina, e in nessun altro paese. Anche in Italia il consumo di carne, pur se orientato sempre di più verso le carni bianche, nel 2019 è aumentato nonostante lo scoppio delle diete vegetariane. Il problema è sicuramente più impellente nei mercati cinesi dove, come detto, vengono mescolati animali selvatici e domestici. Sembra però che nessuno pensi più all’epidemia del morbo della mucca pazza che non aveva a che fare con un virus, ma con un agente infettivo non convenzionale la cui comparsa era causata dall’alimentazione forzata delle mucche, erbivore, con scarti di lavorazione delle carni di altri animali. Il problema sembra risiedere quindi nella quantità di carne che viene prodotta, più che nella qualità. Con un consumo minore, si eviterebbero quasi tutti i problemi di cui abbiamo parlato finora.

Negli Stati Uniti c’è qualcuno che invece non è d’accordo con la chiusura di questi mercati-focolaio da cui inevitabilmente potrebbe spuntare un nuovo virus una volta ripresi i vecchi ritmi di vita. Il 4 aprile, il sito di Bloomberg titolava “La Cina riapre i wet market ed è una cosa buona” e nel sottotitolo premetteva subito “prima di indignarci: lungi dall'essere un pozzo nero della malattia, in realtà forniscono prodotti freschi e puliti”. La testata di proprietà del magnate Michael Bloomberg, ritiratosi di recente dalla corsa alla Casa Bianca, spiega che è comprensibile indignarsi all’idea che il luogo d’origine di un’epidemia epocale ancora in corso torni già a lavorare, ma si tratta di punti vendita sempre meno popolari fra i cinesi, che resistono proprio perché "in grado di fornire prodotti freschi, che per molti consumatori sono una scelta più sana e sostenibile". Anche The Conversation, un sito non profit che pubblica notizie scritte da accademici e ricercatori, invita a non creare “panico morale” dettato dal puro sentimento anti-cinese che ci porta a inorridire per tutto ciò che lì è normale, e da noi no: “L'epidemiologia deve essere specifica su quali specie contenga effettivamente il mercato all'ingrosso di frutti di mare dell'Huanan”, spiega The Conversation, secondo cui i rapporti su questi wet market mostrano spesso montaggi di immagini di serpenti, cavie, cuccioli di lupo, istrici, pangolini provenienti da diversi mercati in tutta la Cina, "con poche informazioni su dove e quando sono state scattate o girate”. Chi ha ragione? Quale che sia la soluzione che adotteremo, per ora solo il titolo dell’articolo spagnolo tradotto sul Manifesto è un buon punto di riferimento: comunque vada, quella di prima non potrà/dovrà mai più tornare a essere la “normalità”.