La paura del vuoto

Mi laureai nel marzo del 2004, nel pieno degli attacchi di panico

Quando tutto è perfetto...è peggio

Barbados ci apparve deliziosa e rassicurante come tutti gli stereotipi. Sabbia bianca, abiti sgargianti, polli speziati, rum e marijuana, porche anglosassoni.

La prima sera ci sbronzammo di punch rum. La mattina, noleggiammo una specie di dune-buggy decapottabile e ci avventurammo nell'entroterra in compagnia del Bosisio – ce l'aveva rifilato sua madre come una bomboniera fucsia al matrimonio di un biscugino. Era un veronese della nostra età, alto e bolso, in vacanza con la colpevole genitrice. Entrambi rossi di capelli, erano di quelli che in spiaggia acquistano parei coi delfini per regalarli a parenti e colleghi, poi si vantano di come sono riusciti ad abbassare il prezzo nella trattativa col commerciante "di colore". Etimologia (incerta) di "Bosisio": Bagigia (nocciolina americana in ferrarese), Bagigio (sembrava dotato di pene), Bosisio (la doppiatrice di Marge Simpson).

Già dai primi minuti di gita gli echi della sbronza davano alle cose una forma malata, liquida, e ogni pensiero cosciente era un ciuffo verde e sotto il livello della coscienza c'erano le carote e quelle carote erano il Panico. La vegetazione era infestata di vita come un cadavere in decomposizione, il sole faceva male, nulla lasciava credere che nell'arco di decine di chilometri fosse reperibile della penicillina, così pensai: "Se sto male qui, sono fottuto." Detto fatto: fui fottuto. Fino a quel momento me n'ero stato sul sedile posteriore col Bosisio, dicendo che la foresta era straordinariamente rigogliosa, notando che gli uccelli tropicali erano proprio belli, ribadendo che era una pacchiaessersi liberati dall'università e potersi chiamare dottore l'un l'altro, canticchiando questo e quello. Quando arrivo al verso di Emozioni "se poi è tanto difficile morire" le sinapsi vanno a puttane e tutto mi sembra perduto.

"Chiedimi delle capitali" dico al Bosisio perché ho bisogno di tenere la mente occupata.

Lui, con una flemma del tutto fuori luogo, sbatte le palpebre, mi guarda qualche secondo, come per essere sicuro che non lo stia prendendo in giro, poi, vedendo che addirittura mi metto in piedi sul sedile per farmi schiaffeggiare dall'aria, scandisce, da là sotto: "Dunque, vediamo un po', dimmi, per esempio, la capitale... dell'Argentina".

M’abbasso e lo piglio per il bavero: "Buenos Aires cazzo chiedimene una più difficile porca troia d’una troia".

Prova con lo Sri Lanca, il Burkina Faso, la Mongolia, la Nuova Zelanda, ma non fa l'effetto sperato.

Supplico Martino, alla guida, di fermarsi al primo spaccio di rum. Scendo, compro una bottiglia mignon, sento l'alcol tiepido in gola e vomito. Poi riesco a finirla in un sorso.

"Tutto bene?" domandavano tutti e tre a turno.

"Insomma" rispondevo io girando la testa in qua e in là, senza riuscire a trovare un appiglio nelle cose.

Raggiungemmo una baracca dove Toly, un indigeno sciancato sui quaranta, e la moglie, tettona e autoritaria, servivano qualche piatto. Gli altri ordinarono un pappone verde e insalata di pollo. Io, che fui soprannominato da Toly The Passenger, perché non guidavo, gli raccontarono, avendo preferito lasciare la patente in Italia, chiesi solo una bottiglia di Rum del Pirata, autoctono, non melassato. Alla risentita richiesta di spiegazioni della moglie, che si vantava di cucinare la miglior insalata di pollo dei caribi, Paolo dichiarò, come si trattasse di un dogma ineffabile: "The Passenger only drinks". Toly mi strinse la mano da vero uomo. Mi feci portare dei cubetti e continuai a trincare.

"Qui non pensi a quanti gradi ci sono, non pensi a quando pioverà. – Martino si lasciò andare sullo schienale – C'è un clima talmente perfetto, che è come se non ci fosse un clima".

"Potrei vivere così per sempre" disse Paolo, scrollando la sigaretta sulle piastrelle bianche e blu, come gli aveva suggerito Toly.

La moglie disse che voleva lasciare il marito per sposare The Passenger, al che Toly mi guardò come realizzando per la prima volta che i miei antenati avevano frustrato i suoi antenati.

Ordinai un'altra bottiglia e me la infilai nel taschino della camicia floreale.

Sulla strada di ritorno chiamai mio padre che mi consigliò di fare un po' di sport perché "l'attività fisica stimola la secrezione di dopamina". Ci fermammo in un centro commerciale fatiscente e scovammo un supertele.

"Vedrete che numeri che vi faccio" dissi rigirandomi il pallone in mano, mentre m’impegnavo a contare gli esagoni neri.

Tornati al residence, decidemmo di giocare sul bagnasciuga. Ma ogni volta che calciavo la palla – avevo quasi finito la seconda bottiglia – il contraccolpo mi faceva cadere per terra.

"Sapete? – mi scrollai la sabbia dal costume – Oggi, tutto sommato, preferirei dedicarmi un po' al jogging".

Il Bosisio approvò dicendo che correre in riva stimola la microcircolazione degli arti inferiori.

Ma il rum nel taschino rimbalzava deformando la camicia, barcollavo, e i passanti, per lo più coppiette che raccoglievano conchiglie, mi scansavano inorriditi. Era il tramonto e, dopo un chilometro, mi invase una stanchezza da febbre. Andai a letto, provai a scrivere ma non avevo una parola e mi addormentai.

Qualsiasi rimedio sembra inutile...

Mi sveglio alle due passate, il Panico è ancora lì, gli altri dormono. Leggo Proust, troppo lento e io devo scappare. Leggo Foucault, mi è incomprensibile quanto il libretto d'istruzioni di un cervello sapiens sapiens. Prendo penna e bloc-notes, scrivo: "L'ateismo non è che una scaramanzia metafisica. L'angoscia è la mia estasi mistica". E basta, non mi viene altro.

Esco in cerca di alcol, a petto nudo. Al cancello del residence vedo un'americana con un vestitino inguinale di spugna gialla. Ha le spalle da nuotatore. Il sesso distrae, produce dopamine. Mi dice che è di New York, le dico che New York mi inquieta perché non ci sono piazze e allora io potrei camminare per sempre, risponde che posso fermarmi in un centro commerciale. La bacio. Le metto le mani ovunque, brancolo sulla sua pelle, mi dice che no, ci saremmo rivisti il giorno dopo.

Chiamo Emma, le dico che sto male, che ho bisogno di abbracci, che la amo.

Cammino senza una strategia e trovo un bar di locali. Ordino due birre. La prima la prosciugo in una sorsata. Vedo delle patatine in un piatto, le patate sono fatte di amido, l'amido nella digestione diventa zucchero e lo zucchero favorisce il rilascio di dopamine. Me ne metto in bocca qualcuna, ma sono flosce, batuffoli di cotone. Le sputo. In alto c'è un televisore: dicono che l’asteroide 2004 FH sta passando a soli 43.000 chilometri dalla terra. Un pelo più in qua, giusto un pelo di etere cosmico, e tutto questo finirebbe. Ma tutto continua.

Torno in stanza, gli altri dormono, ancora. Saranno le quattro. Mi faccio una sega, finisco la seconda birra, mi faccio una seconda sega e, nella foga del rapporto, rompo la bottiglia.

"Che cazzo combini, scemo?" Martino si sveglia di soprassalto.

"Ho urtato la bottiglia – mi tiro su i boxer, con calma – Ero uscito per farmi una bella passeggiata, si vede anche Orione."

"Vuoi che chiamiamo un medico?" chiede Paolo.

"No, però adesso mi andrebbe di fare qualche flessione."

Una serie, un'altra, un'altra e un'altra ancora. Gli altri fingono di non guardarmi, parlano delle due venezuelane che hanno incontrato alla festa di qualche ora prima, un po' pelose ma carine.

"L’ attività fisica è un vero toccasana", mi scrollo la polvere dalle mani.

"Forse hai trovato il tuo karma. – Martino incrocia le gambe sul materasso – Invece del filosofo dovresti fare il culturista."

"Forse sì. – stringo gli occhi in segno di concentrazione – Forse sì".

Mi siedo anch’io sul letto, chiedo se con le venezuelane hanno parlato inglese o spagnolo, che musica facevano alla festa, quanto venivano i drink pestati, se erano tornati in taxi.

"Che numero ha la camera del Bosisio?" d‘un tratto mi ricordo che sua mamma è in possesso di potentissimi ansiolitici, così ha detto.

"Perché? – Paolo sgrana gli occhi, come sospettando che voglia massacrare Bosisio e madre con un trinciapollo – Sono quasi le cinque."

"La cento tre. – dice Martino – Ma che ci vai a fare?"

"Devo sbrigare alcune faccende."

Busso, busso ancora, ma niente. Dove fossero quella notte non l'ho mai scoperto.

Meglio lo Xanax o Dio?

La storia finì così: un medico locale in camicetta hawaiana che ci mise molto, molto tempo a comprendere il significato di "attacchi di panico" mi prescrisse dello Xanax, io ne presi un paio di pastiglie a bordo del volo anticipato che m'ero fatto prenotare da mio padre. Mi iscrissi subito a filosofia e mi misi a comporre aforismi su Dio – questa cosa che mi capitava era un suo dono, che mi rivelava il volto assurdo della realtà, e lui non era cattivo, ma incapace, il Male gli era scappato come una scorreggia a un matrimonio.