Il problema è il rapporto con tua madre: 45 euro, in nero.

Questo psicologo me l’aveva consigliato un vecchio compagno del liceo che si stravaccava su quella poltrona, con i braccioli larghi mezzo metro, per riacquistare fiducia in se stesso nel gioco del tennis. Caspita, da ragazzino s’era quasi classificato, poi il padre, un rappresentante d’arredamento che lavava la macchina tutte le domeniche, l’aveva scoraggiato, assicurandogli che col rovescio a una mano non s’andava da nessuna parte. Io invece dal dottor Balboni mi ci presentai per farmi dimostrare che non ero completamente pazzo. Che ogni secondo non fosse quello buono perché mi tornassero su i vecchi trip, i vecchi funghi, i vecchi diavoli. Che i miei ininterrotti attacchi di panico non fossero l’anticamera dell’inferno.

Il dottor Balboni, in mocassini senza calze, ha estratto un quaderno, ha annotato la mia età, la mia occupazione, e s’è messo ad ascoltare e a fissarmi.

“Ho sognato di sprofondare nell’acqua lurida. – tengo una gamba piegata sul largo bracciolo – Che vuol dire?”

“Per ora parla tu, io ascolto.”

“Se invece mi va bene sogno di trovare conchiglie colorate nell’acqua limpida perché, sa, da bambino ero felicissimo quando arrivavo nella spiaggia deserta, la mattina presto, e col retino in mano mi immergevo fino all’inguine e il mare era ancora così piatto che non mi sguazzava l’ombelico, e sentivo le sogliole sotto i piedi, e allora strascicavo il retino, poi mettevo pesci e granchi nel secchiello, alla fine li liberavo ma una volta una passante svuotò il secchiello perché era una crudeltà tenere gli animali prigionieri e quindi, forse, ero crudele già allora e…”

“L’acqua, nel simbolismo inconscio, corrisponde alla madre.”

“Ecco, ieri io e mia mamma abbiamo litigato perché la scrivania della mia camera è piena di libri e vecchie fotocopie e lei voleva che mettessi in ordine. Non c’avevo granché da fare, in realtà, però, dico, è camera mia, o no? E allora lei come si permette di invadere i miei spazi e di dirmi cosa ci devo fare e quindi le dico di badare agli affari suoi e a quel punto è lei che mi chiede come mi permetto di rivolgermi così a mia madre e, insomma, iniziamo a urlare e lei sbatte la porta dicendo che con lei ho chiuso. Ma lo ripete tutte le volte e poi tutto ricomincia da capo e…”

“Devi tagliare il cordone.”

“Cioè, ho sbagliato?”

“In queste cose non c’è giusto o sbagliato. – sorride con gli occhi bassi – Ma sono occasioni di condivisione affettiva mancate.”

“Quindi che devo fare se lei s’arrabbia per delle sciocchezze? – mi protendo verso di lui – Pensi che quand’ero ragazzino non voleva che mi spingessi oltre il terzo stabilimento balneare rispetto al nostro, né a destra né a sinistra, e forse con la droga io sono andato anche al decimo o undicesimo stabilimento balneare e adesso è come mi sculacciassi da solo e…”

“Lei ha bisogno che tu abbia bisogno di lei. Ma tu devi capire le sue debolezze. Se lei litiga per delle inezie, tu evita lo scontro, sorridi, fa’ una battuta, trattala come se la bambina fosse lei, e non tu, perché tu non lo sei più da tanto tempo”.

E io vomito parole e vomito e vomito e vomito e vomito.

“Ma sono matto?” Gli chiedo al quarantaquattresimo minuto (la seduta dura quarantacinque primi e zero secondi).

“No. – mi risponde infilando i miei quarantacinque euro tra le pagine del quaderno – Il bambino che è in te, però, ha tanta paura. – apre la porta di un bel legno laccato – Imparerai come tranquillizzarlo.”

Esco in strada e il sole è abbagliante. È una via del centro, le bici vanno e vengono e temo che qualcuno capisca che sono stato dallo psicologo.

“Come va?”, mi chiede un conoscente senza smettere di pedalare.

“Bene. – urlo con un sorrisone larghissimo e colpevole – Sono appena stato dalla psicologo.” Mi mordo la lingua.

Quello, intanto che svolta, prima di scomparire, mi fa sentire una di quelle risate monocorde ma polivalenti, che se poi gli dici che scherzavi loro possono dire “certo, avevo capito”, e se invece gli dici che facevi sul serio, loro possono dire “certo, avevo capito”.

Cammino tormentandomi le unghie. Non sono pazzo, che idee, lo dice anche il dottor Balboni.

“Tutto bene?”, mi fa Luca, un ex compagno di calcio, seduto su un paracarro.

“Sì. Perché? Sì, alla grande. – alzo il pollice smangiucchiato – E tu?” Ma al dottor Balboni i soldi glieli ho dati in nero, niente ricevuta. Come giustifica questo? Non è disonestà? L’inevitabile doppiezza che dovrà utilizzare di fronte alla legge, le inevitabili menzogne o omissioni, non pregiudicano la solidità morale di una persona a cui stai affidando il tuo equilibrio psicologico?

“Sì, Luca, bella giornata. – e allora che autorità ha, lui, per garantirmi che non sono matto? – E che aria frizzantina”. Questo qui, Luca, il terzino, ha sempre avuto gli occhi cattivi: parte un attacco di panico. Affretto il passo, arrivo a casa, giù le tapparelle, testa sotto il cuscino.

E così andò avanti per mesi e anni.

Ma che cosa ci resta quando...guariamo?

Un giorno dissi al dottor Balboni che scrivevo, che se voleva gli facevo leggere qualcosa, gli chiesi se scrivere poteva aiutarmi a non impazzire.

“Dipende da come la vivi. Vedi? – estrasse un malloppo di fotocopie dal cassetto – Qui c’è un romanzo di una paziente che parla della sua ricerca del principe azzurro. Molto, molto bello. – faceva in modo che i pazienti non si incrociassero mai e io rimanevo a origliare nella sala d’attesa sfogliando riviste che disprezzavo, senza immaginare che un giorno ne avrei ammorbato i direttori – Ma addirittura per lei è una strada molto difficile. Tu non darti obiettivi irrealizzabili. Partecipa a concorsi per esordienti. E, soprattutto, tieni la pancia rilassata, come fanno gli orientali. È dalla nostra postura contratta che si origina l’ansia.”

Anche se mi sembrava che fosse quell’ansia a obbligarmi a scrivere, e scrivere era l’unica cosa che dava una direzione al susseguirsi dei giorni, stavo così da cani che cominciai a tenere la pancia rilassata, a distrarmi, ad assolvermi, a parlare molto meno su quella poltrona.

Finché non trovai più niente da dire, né da scrivere.

“Vedi? – spiegò un’altra volta – Tu sei fatto così. Quando hai un’urgenza ti agiti, altrimenti ti disinteressi dei problemi, rimandi. Inizia dalle piccole cose. Non aspettare fino all’ultimo per prepararti per uscire, bighellonando fino al punto di dover far tutto di fretta. – gonfiò il petto ed espirò – E usa il diaframma.”

Prima di sfilare le banconote dal portafogli gli dissi: “Tutto in nero?”

“Ma che c’entra?”

“Ho solo quaranta euro”. Tirai fuori due banconote da venti.

Mi guardò con disprezzo, mi sentii umiliato, lo odiai.

A casa, scrissi spaginate di insulti che non avevo avuto il coraggio di snocciolargli in faccia. Forse avevo trovato il modo di salvare capra e cavoli: trasformare il panico in livore. Sarebbe bastato soltanto tenersi sempre da conto un buon nemico.