Piero Alabarda, lo stilista che ha rivoluzionato le giacche negli anni ’70, mi chiamò una domenica dei primi di settembre. Ero sul letto con Emma. «Un amico» le dissi mentre scattavo in bagno col cellulare in mano. Per telefono non ci dicemmo quasi nulla, se non che a fine mese sarei andato a trovarlo a Milano, come da accordi, per vedere se c’ero davvero tagliato, per fare il modello.

Spiegai a Emma con chi avevo parlato, che era un’occasione da non buttare via, che i miei genitori – argomento di una prepotenza orribile – mi appoggiavano. Le vennero gli occhi lucidi. «Usciamo a prendere un gelato?» dissi.

Alabarda mi aveva dato appuntamento in via Verdi, suo quartier generale, dove mi presentai con uno zainetto Invicta da studentello. Palazzo settecentesco con la bandiera italiana che sventola sopra al portone. Consierge con livrea fumo di Londra e caramella balsamica che sbatte tra lingua e molari. Attesa, ascensore, attesa, lacchè con sciarpetta in seta che mi scorta in una saletta. Attesa. Appoggio lo zaino dietro una poltrona. Tengo le gambe allungate, il sedere in avanti e la schiena all’indietro: non mi si devono formare le strisce rosse sulla pancia – forse Pierone vorrà analizzare il rapporto tra massa grassa e massa magra prima di regalarmi la Gloria.

Torna il tizio con la sciarpetta e mi accompagna in una sala più grande, con la mappa del Pianeta Terra appesa al muro e su ogni continente le bandierine mobili dei negozi Piero Alabarda, Gran Bazar Alabarda, Alabarda Accessori, Alabarda Home, dei franchising, dei rivenditori multimarca. Ogni tipologia ha un colore diverso. «Caspita. – dico – I negozi sono proprio moltissimi».

«Già», il tizio chiude la porta e non sento i suoi passi allontanarsi perché c’è la moquette.

La stanza è dominata da un grande tavolo ellittico con quindici sedie. Ne scelgo una dalla quale osservare la porta. Assumo di nuovo la posizione che mi fa mantenere la parete addominale il più liscia possibile.

«Ciao Gastone», Alabarda entra di gran passo e mi mette una mano sulla spalla perché non mi alzi per salutarlo. È gentile, o prepotente. Sceglie la sedia accanto alla mia, non quella di fronte, e si protende verso di me, reggendosi il mento con le mani.

«Allora, – ha la erre vagamente moscia – che mi racconti?»

«Tutto bene. – rispondo – Tutto bene. – continuo – C’è anche il sole.»

«Fatto altre vacanze?»

«In Montenegro. Con la mia ragazza.»

«Mi dicevi che studi ancora.»

«Sì, russo. Sa, è un mercato in espansione

«Io mi ero iscritto a giurisprudenza, ho studiato qualche anno, ma poi si andava troppo per le lunghe. Avevo voglia di lavorare. – sembra più serio – Di guadagnare.»

Guardo la mappa del Pianeta Terra puntellata di bandierine rosse e blu e verdi e gialle e bianche.

«Ti va un caffè, Gastone?”

«Meglio di no, soffro di tachicardia.»

«Davvero?», inclina la testa, i capelli bianchi non sono abbastanza lunghi da sformarsi.

«Sì, a dir la verità soffrivo anche di attacchi di panico.»

«Che strano.»

«Cosa?»

«Tutti con me cercano di nascondere i difetti. – ma guarda un po’ che bel sorrisone! – Tu invece ti mostri per quello che sei.»

«Beh, – faccio spallucce – le ho solo detto la verità.»

Non penso a quello che dico, non capisco se sia una strategia, la mia, quella di presentarmi come un ragazzino sprovveduto, se sia un modo per far colpo, per eccitarlo. Forse questa cosa è inscritta nel mio codice genetico, forse sono biologicamente programmato per scalare le gerarchie sociali con zoccoli di velluto.

###a href="http://www.marieclaire.it/Bellezza/capelli/carolina-di-monaco-oggi-foto#1" target="_self">«Mi ricordi un figlio di Carolina di Monaco».

«Oh», faccio, «grazie.»

«Potresti essere adatto per noi. – si alza – Che dici?»

«Sì, magari, non saprei.»

«Allora rimani in mutande, per favore, intanto io vado a cercare una giacca da provarti.»

Esce.

Mi levo le scarpe da tennis, mi sfilo la cintura, mi tolgo la Lacoste azzurra, i jeans, tendendo l’equilibrio con una gamba per volta, e mi viene in mente la scena di Braveheart per cui mi ero commosso da bambino: “Potranno toglierci la vita – il capo, Mel Gibson, motivava così le truppe di bifolchi scozzesi – Ma mai la libertà!” e giù tutti a farsi trucidare dall’esercito inglese.

«Porti una M, direi. – Alabarda è tornato e osserva la giacca nera che ha in mano – È entrato qualcuno?», mi misura dalla testa ai piedi, sono in mutande, come voleva lui. Non in boxer, in mutande, con l’elastico sottile da spogliatoi del minibasket.

«No.»

«Per fortuna. – ha davvero un sorriso da copertina del Time, con tanto di nasino a punta che si alza un po’ – Sennò chissà che cosa pensava.»

«Eh.»

Guardo la moquette, che è proprio bella. Un po’ decadente, ma bella.

Mi gira attorno. So che sta guardando la mia spondilolistesi, la vertebra L4 che sporge su L5 e mi deforma la schiena.

«Ti inarchi un po’, qui», mi sfiora.

«Già.»

«Quest’estate mi sembravi più muscoloso

Penso a William Wallace, al “mi te de disi proprio un bel niènt, faccia di merda” con cui Gassman si fa giustiziare dai tedeschi piuttosto che rivelare i piani dell’esercito italiano ne La grande guerra, ad Achille che sceglie una breve vita da eroe, al bushido dei samurai.

«Mi basta un po’ di palestra. – cerco di gonfiare il petto – Mi ci vuole poco.»

«Dovrebbe esserci un polaroid da qualche parte”, fruga dentro un armadio nero, così lucido da riflettere la mia sagoma. Mi sembra orribilmente sgraziata, con i fianchi larghi.

«Non la trovo»

«Oh.»

Mi guarda. Io guardo le bandierine. Sento una sirena in lontananza.

«Portami qualche tua foto. Valuteremo col mio staff se sei adatto.»

«Va bene»

Mi guarda. Io guardo l’armadio. Ora mi sembra addirittura di sentire i passi sulla moquette del corridoio.

Lentamente mi infilo i jeans, la cintura e tutto il resto.

Mi risiedo. Lui no. Mi sembra più serio. Ma forse è solo la mia coscienza sporca – non avrei mai pensato di potermi sentire in colpa per non essermi fatto sodomizzare.

«Ci rivediamo, allora?» chiedo.

«Sì, ciao» mi apre la porta.

Lo richiamai dopo un mese, quando andai a trovare Danilo, che si era trasferito a Milano con la scusa di frequentare una scuola notarile che sapeva benissimo non l’avrebbe portato da nessuna parte, ma almeno si risparmiava le telefonate del padre che assicurava di essere a capo di una cordata per salvare Alitalia.

«Vieni pure qui in via Verdi. – Pierone era di nuovo gioviale – Ti voglio anche presentare una persona.»

Salito, gli allungai le foto. Me le ero fatte fare da mio padre, che sottovalutava il potere invalidante, ai fini della mia realizzazione, della spondilolistesi. Diedi ad Alabarda anche Disincanti, la raccolta di miei aforismi su Dio. «Ci fanno caso le persone un po’ sensibili a queste cose. – aveva assicurato papà – Fidati.» Piero non aprì neppure l’incarto delle foto, non lesse neppure la copertina del libretto, borbottò “grazie” e mi fece riaccomodare nella stessa sala. Stessa disposizione delle bandierine, delle sedie, dei nostri corpi, dei suoni.

«Ti farò conoscere il direttore commerciale. – sorride, di nuovo – Visto che hai studiato tanto forse è più quella la tua strada.»

«Grazie mille, davvero. – rizzo la schiena – Penso abbia proprio ragione.»

Silenzio, di nuovo. Silenzio, ancora.

«Visto che pioggia?» faccio.

«Sì”, ora è lui a guardare altrove.

«Ma per le foto mi saprà dire comunque?»

“Mh mh”. Forse avrà solo i cazzi suoi, sai le giornate di gente di quel livello, direbbe papà.

«Il libricino che le ho portato sono miei aforismi filosofici, perché a me piace scrivere.»

«Aspetta qui.»

Ha la schiena larga, robusta per un uomo di settantatré anni.

Cerco di decifrare quello che succede là fuori, senza successo.

Apre la porta un signore sui cinquanta, coi baffi e la riga da una parte.

«Bill Doust», si presenta.

Era il direttore commerciale. Mi fa qualche domanda, prima in italiano, poi in inglese. Mi dice che penserà a quali opportunità offrirmi. Che anche lui aveva vagheggiato di dedicare la propria vita alla letteratura, ma poi aveva iniziato a commerciare tessuti per mantenersi, la cosa aveva preso piede, non era stato possibile portare avanti entrambi gli interessi parallelamente – Proust e la sopravvivenza, nello specifico – e ora era costretto a lavorare quattordici ore al giorno.

«Almeno fa un bel lavoro».

«Tutti i lavori sono noiosi. – sbuffa – Solo il Signor Alabarda può svegliarsi e decidere sul momento che gli va di fare.»

«Però lei viaggia in giro per il mondo.»

«Il novanta per cento del mercato parla inglese. – mi allunga il suo biglietto da visita – Devi migliorarlo.»

«Ci sentiamo, allora?”

«Sì, bravo».

Uscito dalla sala cerco Alabarda e lo ringrazio. Lui non alza lo sguardo da una pezza di velluto viola.

«Allora arrivederci», me ne vado verso le scale.

«Aspetta. – fa lui – Ti accompagno giù. Ma in ascensore.»

Lo attendiamo in silenzio.

Dentro è piccolo, più piccolo di quel che ricordavo, per due persone.

Alabarda, muto, si guarda attorno, si rigira la pezza viola tra le dita. Penso che dovrei fare qualcosa. Dire qualcosa.

«Stasera che combina?»

«Ceno.»

Si rimette ad aspettare. Io non riesco a dire altro.

Da quella volta non mi avrebbe più risposto al telefono.