L’estate appena trascorsa, mentre Berlusconi veniva finalmente condannato alla galera per frode fiscale liberando lo stesso urlo carnivoro che aveva fatto vibrare il patibolo di Luigi XVI, sono stato a cercare Godot a Cuba. Io, che se sto fermo soffro subito di lombalgia per i miei problemi alla colonna, non riesco ad aspettarlo in piedi su una strada di campagna. Ci sono andato, in quell’isola che è come Disney Land coi sosia del Che al posto di quelli di Topolino, per inseguire quello stronzo di Godot, che forse è Dio, forse un orgasmo prolungato indefinitamente, forse la morte o Biscione Editore, con Giulio, Danilo e un altro amico, Francesco Bisi. Bisi – ha quei cognomi corti, quelli che potrebbero terminare in y e che quindi s’impongono sui nomi – si è laureato alla Bocconi, ha lavorato anni nella finanza a Milano, poi ha ripiegato sulla provincia d’origine, per fare compravendite di case e giocare a beach tennis ai lidi comacchiesi. Spiega che non ha senso trasferirsi in altre città perché, come dice Lao Tzu, anche nel villaggio vicino ci saranno cani che abbiano e camini che fumano. Spiega che Milano è troppo cara per uno a cui piace leggere il pomeriggio. È molto alto, senza un filo di grasso, con una lunga cicatrice sul ventre, ricordo di un incidente in Ciao e causa di un’insufficienza renale. Non so se sia questo problema a determinargli una cosa chiamata Gilbert, una specie di sindrome metabolica per cui non beve alcolici, deve ingurgitare solo cibi leggeri ma ingurgitarli in continuazione, è sempre stanco e non si aspetta niente dal futuro. “Non mi importa di quell’appuntamento”, dice, “c’è Gilbert che mi rompe i coglioni, devo dormire”, e io capisco che tutti i grandi saggi della storia hanno avuto Gilbert che li tirava per il saio. Anche a Cuba dormiva parecchio. Spesso con una puttana taciturna chiamata Ana, perché Bisy si diletta di sadomasochismo.

“Si fa legare polsi e caviglie, ma parla poco e io invece voglio che mi chiami papito”, ci spiegò quando lo passammo a prendere con la macchina a noleggio dopo la prima nottata d’amore, “si fanno chiamare così, dalle ragazze, i chulo”.

“E chi sarebbero?” chiesi.

“I papponi locali, che però sono anche i fidanzati delle pute, e le pestano.”

“Brava gente” commentò dallo specchietto retrovisore Danilo, che guidava.

“Perché sei così borghese? – scandì Bisy, come nel suo stile, con interminabile lentezza – L’amore è proprio questo. Abbandonarsi senza freni a se stessi, anche ai lati peggiori di se stessi, e all’altro, a costo di perderlo perché scappa dalla persona orribile che sei, o perché stringi troppo il collo.”

“Sarà” disse Danilo.

“Tu non sei, forse, come tutti noi, un uomo orribile, Dani? Ma vi dirò qual è il peggiore, dentro a questo abitacolo – muoveva l’indice come un tergicristallo a velocità 1 – Gastone, lo sai, sei tu il peggiore” mi disse.

Bisy, a parole, era il più integrato di tutti. “Quando chiedi a una ragazza cubana che cosa le piace nella vita, lei ti risponde la musica e passeggiare. C’è forse una risposta più sensata?”

Ma quand’era il momento di dargli dei soldi, ai cubani, fossero puttane o postulanti, perché verosimilmente i loro cervelli semianalfabeti per continuare a cacar saggezza avevano bisogno di un apporto minimo di calorie, Bisy pontificava: “Perché dobbiamo corromperli col lusso?” Giulio aveva appena detto che era un pezzente, perché quella povera mignotta, che veniva dal buco del culo della provincia cubana e aveva visto L’Avana la prima volta il mese precedente, poteva anche portarla alla Guarita, il miglior ristorante in città, invece che in una bettola dove servivano a stento riso nero con fagioli. “Poi vivrebbe per sempre infelice” rispose Bisy, e nessuno ebbe la faccia tosta di ribattere.

Quando ti aspetti che un cubano, avvicinandosi con una bocca sdentata e famelica in un vicolo buio, ti voglia piantare un coltello in pancia per portarti via un pacchetto di sigarette, questo nel peggiore dei casi cerca di rifilarti dei sigari fatti con foglie di banani. Allora tu ti senti uno stronzo. Ma poi capisci che non sei uno stronzo, non è perché Godot è passato di qui, non c’entrano le menate sul buon selvaggio. Piuttosto il regime, che campa grazie al turismo, farebbe incarcerare chiunque non si dimostrasse docile nei confronti degli occidentali e predisposto alla salsa. “È questo il punto. – spiegò a colazione Bisy, mentre ingurgitava fette di mango avvicinando la forchetta alla bocca con grande lentezza poi producendosi, tutto d’un tratto, in uno scatto di collo e mandibole da predatore ovoviviparo – Avete mai visto le cerimonie a cui partecipava il Caro Leader coreano? Era sanguinario, ma la gente piangeva di gioia quando lo vedeva. – non sapeva neanche lui se scherzava, e in fondo non aveva alcuna importanza – Loro, Giulio, non andrebbero mai a smanettare davanti a un Mac nella City, loro sono liberi.”

“A questi qui – Giulio indicò un ragazzino scalzo che i stava avvicinando con un piattino per le offerte e un foglio di cartone recante l’enigmatica scritta “Canada” – mi pare che i quattrini non gli facciano schifo.”

“Appunto, bisogna salvarli. – Bisy inspirò a pieni polmoni – Da me non avranno un dollaro.”

Un mese prima di partire ero stato invitato a Roma dalla Banca Longobarda, per una cena con Yoani Sanchez, la blogger dissidente cubana, già candidata al Nobel per la pace. Al nostro tavolo, nel ristorante di un hotel in cima al Gianicolo, c’erano anche il marito, Reinaldo, e Gino Sassoli, presidente della Longobarda - sì, quello che disegna i cerchi sulla sabbia per illustrare il potere apotropaico dell’istituto di credito da lui stesso fondato. Il vecchio Sassoli parlava con la schiena diritta, girando piano la testa sui commensali, come uno abituato a vendere conti correnti con la forchetta nella mano sinistra. Raccontò di come nei primi anni ’80 avesse letto su Monopoli (e io ora ci scrivevo, la qual cosa mi provocò un brivido idiota) un’intervista di Berlusconi in cui spiegava che era disposto ad ascoltare chiunque avesse una buona idea e allora lui, Gino, avesse pensato “sta parlando con a me”. Di come, per puro caso, l’avesse incontrato pochi giorni dopo ad Alassio, un giovedì, e di come avesse sottoposto alla sua attenzione, nonostante fosse un perfetto sconosciuto, il proprio progetto di creare una banca per le famiglie italiane – detta così, tra la carbonara e l’abbacchio, l’idea non mi sembrò una cannonata. Raccontò di come nel suo paese natale, Sirmione, al tempo della Resistenza, fosse stato proprio il gerarca fascista locale a salvare dai nazisti alcuni partigiani che avevano fatto saltare un ponte. Si commosse, affettando la cassata, e disse che al mondo aveva incontrato “tanta brava gente”. Io sminuzzai in minuscole fettine una ciliegia candita e poi chiesi a Reinaldo se la cena gli era piaciuta.

“Non ho pagato – sorrideva solo con un occhio, perché l’altro era più piccolo e inespressivo – e non dovrò neppure lavare i piatti. – lui era sulla sessantina, la moglie non arrivava ai quaranta – La cena è stata buona per forza.”

“Tua moglie dice di essere ottimista – la guardai, aveva capelli lunghi e neri, una sottanona colorata, qualcosa di zingaresco – e anche tu mi sembri un tipo allegro, no?”

“Conosci la differenza che c’è tra i verbi ser ed estar?”

La conoscevo perché la professoressa di spagnolo a scienze politiche si chiamava Brunner, aveva gli occhi gelidi e dieci crediti formativi a disposizione. In pratica vogliono dire entrambi “essere”, ma ser esprime uno stato permanente, estar momentaneo.

Yo soy optimista, pero estoy pesimista” scandì Reinaldo.

“Allora secondo te era meglio la dittatura di Batista?”

“La sua seconda dittatura durò sette anni. Quella di Castro dura da cinquantaquattro. Tu preferiresti stare con un cubo di cemento sulla testa un paio d’ore o tutta la giornata?”

Masticava tenendo il bolo sempre nella stessa guancia, aveva la carnagione cinerea, la giacca polverosa, senza una forma, e lo straordinario talento di tutti i sofisti: per qualche minuto, miracolosamente, non sentivi l’esigenza di mangiare o bere o fumare o scopare o dormire, ma solo di parlare e ascoltare.

“Ma tu che fai a Cuba?”

Libero periodista.”

Mi allungò un biglietto da visita che assomigliava a uno di quelli dei carrozzai che ti trovi sotto i tergicristalli della macchina.

“Ma si può essere un libero periodista, a Cuba?”

“Tu puoi rapinare una banca, a Roma? – sorrise – Certo che puoi.”

Prima di partire per Cuba scrissi ai coniugi Sanchez un’e-mail per incontrarli a L’Avana. Non mi risposero mai.

Non mento, mi avrebbe fatto piacere rivedere Reinaldo e stare qualche ora senza bere rum, a masturbarci insieme coi suoi giochetti logici. Ma soprattutto avrei voluto dimostrare ai miei amici che m’ero fatto un giovanotto, come si dice. Se ci avessero spediti fuori da Cuba con una pedata nel culo con il divieto di ritornarci per la mia supposta attività giornalistica, se mi avessero sbattuto in una galera merdosa per i miei contatti coi dissidenti, se mi avessero puntato un machete alla gola fuori dalla Floridita bisbigliando “periodista de mierda”, forse il mio complesso d’inferiorità verso i coetanei che pagavano senza aiuti del papà l’assicurazione dell’auto sarebbe stato redento.

Ma non andò così. Piuttosto, man mano che vagavamo per i villaggi, formati per la maggior parte da enormi locali disabitati che sembravano saloon texani senza spari, né una frontiera che attendeva i pionieri verso ovest, senza legge né fuorilegge; man mano che transitavamo a passo d’uomo tra capannelli di abitanti stravaccati sui marciapiedi, affrancati dall’opposizione capitalista felicità/infelicità, che semplicemente stavano al mondo, come una vacca o un ananasso; man mano che una mia vecchia conoscenza, la giungla tropicale, scorreva davanti agli occhi che tutti ci sforzavamo di tenere ispirati e sognanti al cospetto di palmizi, dolci colline, bambini nudi che salutavano e cascatelle; man mano che capivo che se Godot era stato qui, s’era fermato giusto il tempo di ricordare agi indigeni che di fronte alla morte siamo tutti uguali e quindi di svelargli il segreto della fermentazione della canna da zucchero; man mano che Danilo mi faceva creste su creste per benzina, alloggi e ristoranti e diceva pure ad alta voce “Gastone è il più facile da inculare”; man mano che mi si fece chiaro che affidare la macchina a me era per tutti un atto di fede compensato solo dall’ilarità di vedere un mentecatto che guidava con entrambe le mani sul volante e il collo proteso verso il parabrezza; man mano, insomma, che la vacanza procedeva senza intoppi politico-giudiziari, io intuii che l’unica qualità che potevo far valere su tutti loro – nonostante i miei buoni propositi iniziali di farmi rispettare in virtù del mio talento esistenzial-giornalistico-letterario – era la costanza con la quale mi ero applicato tutto quell’inverno alla panca piana. Così presi a rifilare dei cazzotti nei reni a Danilo – che per i conti della spesa aveva la furbizia di una portinaia ma non arrivava a settanta chili – ogni qualvolta avrebbe dovuto, nel mio progetto, ammirarmi e annuire, e invece guardava gli altri e poi mi indicava tutto sghignazzante.

“Gastone, – disse Bisy mentre, al tramonto, aspettavamo il turno per la doccia e fissavamo la piccionaia sul balcone della nostra casa a L’Avana – perché sei sempre tanto nervoso?”

“Sai che soffro il tropico, è tutto così pesante. – eravamo seduti su delle poltroncine di vimini, coi talloni appoggiati sul tavolo – Poi mi ha punto un insetto, mi si è gonfiata la spalla e ho male al fegato, vorrei collegarmi a internet e vedere che cazzo può essere ma qui non si può e allora adesso mi sento anche altri sintomi e…”

“No, Gas, non è questo il punto, e lo sai. Il fatto è che tu sei orribilmente egocentrico. – cambiò tono di voce, come in un a parte a teatro – E anche io lo sono, non ti giudico. Ma stai cercando di venderti le chiappe al successo, scrivendo di rossetti e di hamburger su quelle riviste per parrucchiere. Quando smetterai di voler essere riconosciuto come un genio, allora forse lo sarai, anche se non lo capirà nessuno. Scriverai, forse, una grande opera e magari tra una dozzina di secoli qualcuno la troverà in una fogna fossilizzata e la gente, dopo complessissime traduzioni da quel linguaggio dimenticato che sarà allora l’italiano, godrà della tua arte. – mi mise una mano sulla spalla – Non è bellissimo tutto questo?”

“No, mi fa cagare.”

Scoppiò in una risata gettando il collo all’indietro. “Giulio ha finito. – disse, ancora rosso per le risa – Vado in doccia che la salsedine sulla pelle mi dà un fastidio tremendo”.