Così, come tutti, anche io ero sceso a compromessi per salvare la mia relazione con Silvia. Quanto mi piacerebbe essere un duro, cioè avere i coglioni per rischiare di perdere qualcosa, sia l’affetto di una ragazza o la cordialità del portiere o la vita, pur di mantenere il comando. I coglioni di dire: “O così, o a me non va e tante care cose, ci vediamo all’inferno”. Quelli come me, invece, sono quelli che non votano “per rimanere obbiettivi”, quelli che si fanno lasciare, quelli che finché i genitori ti mantengono va bene così, quelli che domani ci penso, quelli che forse mi sbaglio io, quelli che non vogliono i marchi in evidenza sulle polo, quelli che in un corridoio stretto cedono il passo e poi borbottano, quelli che ognuno è libero di pensarla come vuole, quelli che credo in un dio ma non so bene cos’è e di certo non devo pregarlo in qualche chiesa, quelli che si riempiono il frigo di cibi macrobiotici e ogni sera finiscono per sfamarsi con le patatine dell’aperitivo, quelli che danno l’elemosina ai mendicanti simpatici, quelli che non danno la precedenza ai pedoni sulle strisce e intanto chiedono scusa col palmo, quelli che comprano pantaloni immettibili per non far torto al commesso, quelli che pisciano seduti, quelli che io sposato mai – finché gli amici non si sposano, quelli che gridano porco zio, quelli che vogliono vivere per sempre.

Ieri sera sono uscito a bere una birra con Augustin Duproix, che avevo intervistato qualche mese fa e col quale sono rimasto in buoni rapporti. La mia nemesi. Lui è cresciuto in una famiglia di mafiosi marsigliesi a Casablanca, è stato soldato della legione straniera, agente della sicurezza per qualche commerciante di diamanti a Lagos e poi per Israele in Iraq, a lui è esplosa a pochi metri di distanza una mina antiuomo mandandogli a pampogne un timpano, lui si è cauterizzato da solo ferite sulla pancia con un taglierino rovente, lui è diventato un autore acclamato in Italia, scrivendo in una lingua straniera. Lui, mi ha raccontato, non ha mai pianto in vita sua, “se lo avessi fatto mio padre mi avrebbe massacrato di botte”.

Prima di sedersi ha detto “scusa, ora farò una cosa spiacevole”. Si è sfilato dalla tasca del piumino una pistola – nerissima, m’è parso, e luccicante sotto le luci soffuse del pub – e se l’è infilata dietro la schiena, nella cintura.

“Bella” ho detto, e ho ordinato due Guinness. “Lo so che hai ricevuto delle minacce” gli ho detto.

“La maggior parte sono solo degli sfigati. – ha una fronte straordinariamente scoscesa, una pista nera quando la guardi dall’arrivo della seggiovia – Ma giù a Marsiglia si devono essere incazzati perché coi miei libri gli ho toccato i soldi. Solo di quello gli importa.”

“Ma oltre alle minacce t’hanno mai fatto qualcosa?”

“Una bomba sotto la macchina.”

“E cos’è successo?”

“Niente, l’ho vista. C’era un pacco di carta bianca incastrato sopra una gomma. Anche loro erano degli sfigati.”

“Per fortuna.”

“Non è fortuna. Io mi guardo sempre attorno, sono abituato. – e, in effetti, squadrava chiunque entrasse nel locale, concentrandosi soprattutto sulle scarpe – Vedi? Devo sempre stare con le spalle al muro, prendo sempre questo posto qui.” Indicò il suo sgabello.

Anche io mi guardo sempre attorno, per capire chi mi osserva e cosa pensa e perché pensa che sia uno sfigato e poi, invece di tastarmi il ferro nella cintola, mi porto i capelli all’indietro e mi sistemo il colletto.

Augustin non sarebbe sceso a compromessi con Silvia perché lui cambiava troppo spesso la password di Facebook. Piuttosto mi raccontò che dopo aver guadagnato centomila dollari per scortare ebrei in giro per l’Iraq, dopo essersi innamorato di un’irlandese che aveva un mercato del pesce, dopo aver comprato una casa vicino a Galway, intenzionato a sposarla, dopo essere corso a Trieste dalla madre che gli aveva annunciato di avere un tumore in fase terminale, dopo aver scoperto che il tumore era una bugia per impedire il matrimonio, dopo tutto questo regalò la casa alla ragazza e, anche se la amava, rinunciò a vederla di nuovo perché, nonostante tutto, quella lì era la volontà di sua madre.

“Bravo” dissi, finendo in un sorso la birra e ordinandone subito un’altra, perché anche io ero un duro.

Mi raccontò anche di un tale afroamericano che, in medio oriente, si era unito al loro gruppo spacciandosi per un marines, ma che aveva le mani lisce, le scarpe lucide, il nome ricamato sull’uniforme senza un filo di stoffa fuori trama, “era chiaramente appena arrivato da Washington”, mi spiegò, “era della CIA”. Mi raccontò che li stava accompagnando in una perlustrazione per individuare le posizioni di alcune mine. “Avevamo una volpe, Audrey. Perché le volpi hanno un ottimo fiuto per gli esplosivi.”

“Cioè, volpe proprio nel senso di volpe? Non di metaldetector o robe simili?”

“Esistono pure mine di plastica. Le facevano qui, a Voltri, in una fabbrica di proprietà del Vaticano. Volpe come volpe.”

“Volpe, chiaro, il canide”.

“Il meglio per scovare le mine sono i maiali. Ma nel deserto gli si secca il naso. Insomma, questo nero ogni ora andava a pisciare e noi avevamo capito che lasciava in giro dei segnalatori GPS monoporzione, perché noi avevamo il Jammer.”

Diedi un altro sorso di birra a occhi chiusi.

“Quindi non sai cos’è un jammer?” sorrise.

“Non ricordo.”

“Il jammer è un congegno che crea un campo elettromagnetico e manda a puttane tutti i segnali nel raggio di una decina di metri e ti rende irrintracciabile. Quindi non puoi usare la “penna”, che è un'altra roba che tu tieni in mano mentre cammini, spingi un tasto e lei spara il segnale nell’etere.”

“No, non puoi.”

“Già. Era chiaro che questo qui, tutte le volte che si allontanava, lasciava un segnale monouso per rendere il percorso rintracciabile dai satelliti perché noi, coi nostri jammer, prima o poi proseguivamo.”

“Come le briciole di Pollicino?”

“Come le briciole di Pollicino.”

“Ma lui che ci guadagnava?”

“Che noi costavamo caro e, la volta dopo, la CIA avrebbe avuto la mappatura delle mine senza pagarci.”

“Giusto.”

“Insomma, seguo questo tizio dalla distanza mentre va a pisciare per la dodicesima volta e penso a tutte queste cose. All’improvviso nel deserto si alza una colonna di sabbia di venti metri e un boato che sembra che esploda il mondo e io mi trovo le sue viscere in faccia, il suo sangue ovunque, una caviglia recisa, un timpano fuori uso e una lesione cerebrale.”

Mi spiega il tipo di lesione, la differenza tra le infermerie della Legione, dove anche i polimutilati non rinunciano a fare i nonni e a pretendere le lettighe prestigiose, e quelle israeliane: gli ebrei possono mobilitare anche tutto un aereo cargo per farci arrivare un solo ferito. Mi racconta delle varie agenzie di sicurezza a cui erano appaltati i lavori in Iraq, di come, a un certo punto, quelle americane iniziarono a reclutare serbi, croati e albanesi, alcolizzati e reduci di guerra, che si divertivano a fare il tirassegno coi bambini nei villaggi.

“Ma io invece che c’ho da scrivere per vendere qualche copia?” gli chiedo.

Ci guardiamo qualche secondo senza aprire bocca, seduti sullo stretto di Gibilterra. Dove il mare Mediterraneo e l’oceano Atlantico si incontrano ma tu, dalla riva, puoi vedere bene la differenza delle acque – una blu, l’altra azzurra – del moto ondoso, del materiale di cui sono fatti e della profondità alla quale arrivano e capisci che, per quanto si mischino e rimischino e azzuffino e compenetrino, non saranno mai la stessa cosa.

“Mia figlia adesso ha sei anni, – disse – spero cresca come te.”