Mentre l’ETA annunciava il cessate il fuoco (tardi, tardi perfino per l’ETA), Silvia mi annunciò il cessato rapporto. Era il secondo settembre di fila che capitava.

Si presentò a casa mia dicendo che tante cose non le andavano e poi pianse e gridò e fumò e scese le scale e inciampò e sbatté la porta dietro di sé.

Poi mi scrisse un lunghissimo sms in cui diceva che se ripensava alle nottate che trascorrevamo insieme in via Aria Nuova si sentiva morire, perché solo adesso le si era fatto chiaro, solo adesso che tutto era cambiato, che allora c’era stata “come una trasmissione d’amore da una persona all’altra”. Mi disse che mi avrebbe svelato delle sensazioni di cui non mi aveva mai parlato, che non sapeva se faceva bene a confidarmele, ma non riusciva “a trovare una mossa migliore”. Dall’inizio di quell’estate, leggevo, si era sentita “inferiore sentimentalmente”, era sempre lei “a chiedere, a essere gelosa, a elemosinare qualche dimostrazione”. Poi diceva: “Tu sai come si può sentire una donna se il proprio uomo dimostra completa indifferenza quando un altro si avvicina a lei? Non parlo di gelosia, ma di quel nodino allo stomaco che ti viene quando la persona che ami parla, ride, scherza con un'altra.” Mi aveva scritto che voleva svelarmi ancora un altro segreto: “Quando ti hanno operato – mi ero fatto asportare il corno di un menisco, che mi dava noia durante i calcetti – ho parlato con tua mamma, immagina, per come sono fatta io… io che parlo e mi sfogo con tua mamma?! Non ne potevo più, sapevo che per te era un momento di svolta e non volevo metterti ansia (spesso evitavo di dirti le cose per non metterti ansia). Ho chiesto a lei come vedeva il tuo trasferimento a Torino, le ho chiesto perché tu non mi dicevi nulla riguardo a un futuro insieme, le ho chiesto come te lo immaginavi, allora, il tuo futuro, cosa avresti voluto. Mi ha risposto quello che pensavo e si è raccomandata di parlarti entro agosto del nostro futuro, di come intendevamo affrontarlo. Questo non è stato possibile. Quando ti dico che l'amore non è un sentimento astratto e intoccabile e tu mi rispondi che invece io lo vivo come un’operazione matematica, be’, però io intendo proprio questo: senza una somma di condivisione, complicità, sesso, protezione e progettualità, il risultato non è amore. Potrei anche dirti che ti amo ancora, ma non posso, non riesco ad adeguarmi alla tua visione di vita, perché io ne ho un'altra. Ti penso.”

La prima cosa che pensai fu che era scritto maluccio. Poi, chiesi consiglio ai miei genitori.

“Hai ragione, – disse mio padre, seduto in poltrona – è proprio una gran rompicoglioni. Dovrebbe fare come lo Stato italiano. Sa che gli artigiani fanno un po’ di nero. Ma sa anche che se non lo facessero non potrebbero sopravvivere.”

“Non ti ha lasciato davvero” disse mia madre mentre sparecchiava.

“Gastone, – papà continuava – se vuoi stare con lei, a questo punto, devi dichiarare tutto. – agitò una mano – Addio al nero. Ti aspetta un anno di scontrini, rendiconti, telefonate, week end in treno.”

“Perché, mamma, tu non me l’hai detto che avevate parlato?”

“Sapevo quanto ci tenevi a questa cosa della scuola Oliver Twist, non volevo sovraccaricarti.”

“E adesso?”

“Adesso secondo me è un po’ presto per farla finita. Ne hai troppo bisogno, di stabilità, considerando dove ti stai imbarcando.”

E ancora papà dalla poltrona: “Intanto chiediti perché non le hai chiesto di trasferirsi a Torino con te.”

“Perché prima volevo vedere come mi sarei trovato, non volevo la responsabilità di un’altra persona, se poi magari decidevo di tornare qui nel giro di due settimane.”

“Davvero, per questo?”

Incontrai Silvia dopo pochi giorni, perché quel settembre arrotondava lo stipendio come barista, versando “aziendali”, cioè cicchetti di vodka in bicchieri a forma di ditale, dietro il bancone di Trullo. Lei si asciugò le mani con uno strofinaccio, si sporse sopra allo shaker, mi abbracciò e mi diede due bacini sulle guance. Dopodiché ricominciò a scherzare con ogni maschio presente nel bar. La convinsi ad andare a fare una chiacchierata. Guidai mentre le raccontavo che la amavo come non avevo mai amato nessuna, “abbiamo un concetto troppo diverso di amore” rispose, guidai mentre le raccontavo che se non facevo scenate era solo perché mi fidavo di lei, “se uno ci tiene davvero non si controlla, è questione di istinto” rispose, che doveva solo darmi il tempo di ambientarmi a Torino, “ormai è troppo tardi. Che ti credi, che io che sia qui che aspetto come un cane?”, che non era importante quanto ci si vedeva ma come ci si vedeva, “tu ti costruirai una vita, là, e io non ne farò parte, e ci saranno persone – “persone” era un chiaro eufemismo per “troie” – con la tua stessa passione per Dostoevskij e metafore e so che io, per come sono fatta, non lo sopporterei.”

Eravamo arrivati in campagna, accostai accanto a un fosso. Le chiesi di scendere, disse di no, insistei ancora e ancora, e alla fine smontammo.

“Ti ricordi di quando abbiamo scopato qui?”, feci per avvicinarmi.

“Già. – mi bloccò – Ma adesso non mi sembra il caso.”

Una coccinella superstite ai primi acquazzoni autunnali le si posò sulla felpa.

“Hai visto, ancora una coccinella. – la presi delicatamente tra le dita – Portano fortuna, giusto?”

“Sì”.

“Questo vuol dire che torneremo insieme.”

“Non credo, Gastone.”

“E da quando in qua mi chiami così?” Spappolai la coccinella e la lasciai cadere dietro le mie cosce.

“Adesso mi viene da chiamarti così.”

“Torneremo insieme.”

“Ora concentrati sul tuo futuro, sulla scrittura e sulla scuola, che è la cosa più importante per te.”

“Per me tu sei la cosa più importante”.

Provai a baciarla, con la forza, ma riuscii solo a tirarle una linguata sulle labbra serrate, per segnare il territorio.