A inizio ottobre, dopo la prima settimana di lezioni alla scuola di scrittura Oliver Twist, ci portarono a passeggiare in montagna, per favorire lo spirito di gruppo. La meta era una baita sulle Alpi Marittime. Lanfranco andava veloce, perché aveva uno zio scalatore. Camilla fu inaspettatamente ancor più veloce, tanto che dovetti impegnarmi per arrivare insieme a lei a destinazione, così da avere una scusa per cambiarci insieme le magliette sudate. Mi accorsi che aveva i peli sulle braccia, così trovai un’altra scusa, questa volta per allontanarmi e aspettare l’arrivo dei compagni su una panchina di legno.

Con Gian Vittorio, all’imbrunire, andammo sul ciglio di uno strapiombo. Fissavamo un falco volteggiare verso il fondovalle illuminato su un solo fianco dal sole calante.

“Cosa t’aspetti?” gli chiesi.

“Che ti devo dì? – alzò le spalle – Di capirci qualcosa, e tu?”

“Ho paura di essere una mezza sega.”

“Eh, Gastò, ce l’abbiamo tutti.”

“Secondo te ha visto un topo?” indicai il falco.

“Non lo so, però è bellissimo.”

Il rapace sembrava sospeso a mezz’aria. Non troppo distante da noi, eppure impossibile da raggiungere.

“Come lo descriveresti in un racconto?”

“Lo chiamerei Godot.”

Tornammo verso la baita. Dopo cena, i due scrittori che c’avevano accompagnato e che sarebbero stati nostri insegnanti – uno col pizzetto, grande sportivo, e l’altro tracagnotto – ci convocavano uno alla volta attorno a un bancale con le tovagliette di carta e le caraffe di vino mezze vuote, poi ci dicevano una parola e noi dovevamo raccontare quello che ci veniva in mente. A me quello col pizzetto disse “Ludovico” e io attaccai a parlare di Ludovico Ariosto, “sono di Ferrara, sai, come potrebbe non venirmi in mente il grande Ariosto?”, e poi cercai di aggiungere considerazioni intelligenti: “L’Orlando furioso sta ai poemi trovadorici come Sergio Leone sta a John Ford”.

Nel cortile interno, che ricordava quello dei campi di concentramento, con i caseggiati con le inferriate tutt’attorno e il vuoto cosmico nel centro, s’erano formati gruppetti che ipotizzavano significati, giudizi e ripercussioni riguardo al test. “Oddio, che angoscia, iniziamo bene” squittì Camilla. “Li ho visti annotare qualcosa su un bloc-notes” sussurrò Davis, guardando le stelle con aria ispirata. “Per me non sapevano come passarsi la serata e dovevano digerire” disse Roberto rigirando la punta del piede sul cemento. Io temevo di non riuscire a dormire in un sacco a pelo, la su, con trenta estranei ammucchiati in gelidi cameroni da otto, così attaccai a bere Genepì, e a bere e bere e bere. Quando l’alcol fece effetto pensai che quella era la prova che tra di loro ero l’unico vero talento, ero un falco, bellissimo, e la gloria era il mio topo. La mattina vomitai.

Nella Scuola, a Torino, le finiture delle aule erano tutte verdi: quello era il colore della gioventù, della creatività primigenia, dei sorrisi di gioia, della voglia di vivere e dei quadrifogli, quello era il colore, mi spiegò un bidello sottovoce, che l’impresa di ristrutturazione a cui si era affidato Stefano Rispoli al momento di fondare la Twist – aveva altri affarucci con loro – doveva smaltire dai magazzini, dopo che il progetto di restyling di un avveniristica gastronomia vegana era naufragato per mancanza di fondi.

Il corso principale era quello di “narrativa letteraria”, durante il quale la classe era divisa in due gruppi da quindici persone. Il mio gruppo aveva come insegnante Mimmo Cucciniello, con la barba grigia, che si vestiva come capitava. Era nato a Napoli una settantina d’anni prima, figlio di un’aspirante soprano che, in attesa di cantare Un bel dì vedremo alla prima della Scala (l’ambiente della lirica la snobbava perché conversava in napoletano stretto ma, per dio, quando cantava quella era la voce degli angeli), non poteva evitare di rendere profittevole la propria ninfomania battendo a Torre Annunziata. Raccontando la storia di sua madre in 403 pagine Cucciniello aveva vinto una caterva di premi. Non era stato quello il suo primo libro. Anzi, era stato molto precoce, aveva iniziato a scrivere ancora adolescente. La ragazza del giovane Cucciniello spedì di nascosto quei primi manoscritti – lui era troppo timido, o troppo orgoglioso per farlo – a Italo Calvino, che inaspettatamente rispose: lo stile del ragazzo, tanto simile quello Turgenev, era “un frutto fuori stagione”. Cucciniello, furioso, avrebbe smesso di scrivere per un paio di decenni. “Da ragazzi si è così arroganti” ci disse. Ci spiegò quanto sia sbagliato scrivere per ostentare talento, quanto ci si debba liberare dell’impulso a sbrodolare sul foglio trovatine e metafore, a stupire il lettore con ogni singola frase, perché se fai così il lettore s’annoia e se lui s’annoia non ti legge più e quindi tu muori di fame.

Insomma, capivo io, è meglio limitarsi ai fatti, piuttosto che raccontare i pensieri, perché per gli altri i nostri pensieri sono nauseabondi come l’odore di un corpo estraneo. Se descriviamo solo azioni daremo agli altri l’illusione di svilupparci sopra considerazioni proprie, e loro ne saranno addirittura contenti: la puzza delle nostre scorregge la percepiamo tollerabile, se non apprezzabile. Ma è un inganno: la puzza è dello scrittore e, più lui è bravo, più feci altrui il lettore s’annusa. Perché scrivere non è bello, né terapeutico, né nobile, né utile per l’umanità. È cacare in pubblico. Già dopo i primi sei mesi, il futuro incerto di libri e giornali mi si rivelò come la promessa etica del terzo millennio.