Waitin' on a sunny day, Gonna chase the clouds away... «Oddio, ma sta parlando a me», ho pensato ascoltando questo pezzo. Ma è stato un attimo. Poi mi sono guardata attorno e mi sono resa conto che quel giorno a San Siro probabilmente almeno 90mila persone stavano «aspettando una giornata di sole per cacciare via le nuvole». Lo stavano urlando insieme a Bruce Springsteen. E io e mia figlia con loro.

Sono una delle migliaia di fan del Boss sparsi per il mondo (qui in Italia siamo tantissimi). Con un paio di amiche e mia figlia Francesca formiamo un gruppo devoto quanto insolito - ormai anche lei se n’è fatta una ragione. Un dream team trasversale a cui si aggiunge spesso qualche amico di Francesca, che si organizza per non perdersi nemmeno una data dei tour italiani - le ultime, ahimè, l’anno scorso. E che ora sopravvive con un filo d’ansia in attesa dell’annuncio di un nuovo disco e relativa tournée: in autunno come dicono gli ottimisti, assicurando che l’album è praticamente già pronto; o tra un paio d’anni, come è più ragionevole pensare, dato che l’ultima si è appena conclusa in Nuova Zelanda. Mica ci si può accontentare delle incursioni che il nostro si concede a sorpresa, come al concerto di Little Steven di Asbury Park, nel New Jersey, nell’aprile scorso...

Se me l’avessero detto una quindicina d’anni fa non ci avrei creduto: ero - e sono - una professionista milanese con la testa sulle spalle e pochissimo tempo libero, uno studio odontoiatrico ben avviato, una figlia da crescere (ora, grazie a Dio, Francesca ha iniziato l’università) e poca propensione per le divagazioni, incluse quelle sentimentali. Sono single da non ricordo più quando, e va bene così. Eppure a un certo punto della mia vita Bruce è entrato di prepotenza, come i suoi assolo di chitarra. Era il 2009, e le amiche mi avevano trascinato a un primo concerto a San Siro, sapendo che amavo il rock e che avevo parecchio bisogno di distrarmi. Conoscevo già le canzoni di Springsteen, mi piaceva la sua poetica ruvida.

Ma era stato l’impatto dal vivo a travolgermi. La sua carica di energia, il suo modo di stare sul palco, il feeling con la band, la generosità nel darsi al pubblico per tre/quattro ore filate, la sua vitalità, mi erano arrivate addosso come una folgorazione. Potente come tutte le passioni tardive. Mi ero ritrovata a ballare sugli spalti come non facevo più da una vita e, canzone dopo canzone, avevo sentito qualcosa risvegliarsi.

A me che vivacchiavo di emozioni tiepide, quelle parole, quel timbro di voce, quelle note avevano ridato una carica vitale incredibile, quasi erotica. Da anni non mi sentivo più così viva, emozionata, scossa. Un po’ come quando rivedi un vecchio compagno di scuola e per la prima volta lo trovi affascinante. Quando sono uscita da quel concerto ho subito pensato: ne voglio ancora. Non posso più stare senza queste sensazioni. Da allora, appena posso lo vado a vedere. E lo seguo anche all’estero, dato che tra il master in estetica dentale e corsi di aggiornamento, viaggio parecchio.

La mia "addiction" è cominciata così e dopo qualche anno, a forza di The River e Dancing in the Dark sparati a tutto volume, anche mia figlia, inevitabilmente, è stata contagiata. Sia chiaro, ho sempre cercato di non confondere il ruolo di madre con quello di amica del cuore. Ma a un certo punto abbiamo dovuto rassegnarci all’idea di avere una passione in comune. Anche se lei la vive in modo del tutto diverso: le piace il senso di appartenenza, lo stare dentro a qualcosa che non finisce dopo il concerto, in una specie di famiglia allargata che include anche me.

Lei la chiama “la bolla di Bruce”. Fa parte di un fan club scatenato, che frequenta sul web e di persona. L’anno scorso insieme a loro ha passato la primavera a presidiare la rete per acquistare al volo i biglietti del tour italiano, appena venivano aperte le prevendite. E poi a prepararsi al rituale dei concerti, tra veglie in pulmino o in sacco a pelo con cui lei e i suoi amici si accampano vicino allo stadio per entrare in zona palco tra i primi. Ecco, io non arrivo a tanto, non posso lasciare lo studio così presto. E poi sono più individualista. Il massimo per me sarebbe salire sul palco con lui per un assolo, di quelli che spesso concede a qualcuno tra il pubblico. Peccato non saper suonare. Di solito li raggiungo all’ultimo momento. E mi ritrovo in mezzo a una marea disciplinata e paziente. Che se ne frega del caldo, delle zanzare, delle ore in piedi ad aspettare l’apertura dei cancelli, nel pomeriggio. Pazzesco, come dice il mio socio in studio? Forse per gli altri. Per chi ama Bruce le cose stanno così e basta.

IL TOUR DÀ SENSO A UN’ESTATE INTERA. Le vacanze si programmano in base a quel calendario. Anzi: si fanno andando ai concerti. Io per esempio solo l’anno scorso me ne sono visti cinque, tra le date italiane - due a Milano e una Roma - e poi Zurigo e Chicago. Da lì mi sono organizzata un giro negli States sulle note di Bruce, viaggiando da sola in bus fino a Cleveland, alla Hall of Fame del Rock dove sono conservate tutte le sue memorabilia, compresa la storica t-shirt bianca di Born in the U.S.A. E poi a Freehold, nel New Jersey, la cittadina dove lui è nato. In qualche modo lì mi sento a casa: “the people of Bruce”, negli Stati Uniti, non è molto diversa dalla nostra. Anche se in America aprono i cancelli all’ultimo, il rituale dell’attesa prima dei concerti si assomiglia ovunque.

Nel settembre del 2012, per esempio, mi trovavo nel New Jersey per un congresso, e avevo acquistato al volo un biglietto. Fuori dal MetLife Stadium mi ero ritrovata a condividere fette di torta con signore di mezza età e famiglie in camper, tra barbecue e salamelle arrosto. In quei giorni ricorreva il compleanno di Bruce, e tutti facevano festa come fosse un parente. Folklore di provincia? Isteria collettiva? Non credo: se l’affetto che risveglia è così potente, è perché quando canta senti che dice cose che ti riguardano. Parla ai ragazzi ricordando il giorno in cui prese l’autobus da Asbury Park per fare il provino a New York (It’s Hard To Be a Saint in The City). E alle donne come me, che non hanno avuto solo Glory Days («Baby, I’ve been low, but never this low, I’ve had my faith shaken, but never hopeless, this is my confession...», canta in This Depression). O alle ragazze come Francesca, che non devono accontentarsi di un amore, se è meno di così («I don’t believe in the magic, but for you I will, I’m a fool, I’ll be a fool darlin’ for you»). Dice cose semplici, puntualizzano le mie colleghe annoiate. Ma chi l’ha detto che la semplicità è banale?, rispondo io infervorandomi.

Springsteen è uno vero, con una biografia coerente, che ha avuto il coraggio di dire in pubblico cosa pensa di Trump. E che canta per dare dignità alle storie della gente qualunque, per restituire “hope and dreams”. Per me incontrarlo è stato salvifico. Un effetto Bruce che ho visto già parecchie volte in azione. L’ultima, con una mia giovane paziente con una grave malattia dentale che stava mandando in fumo i suoi primi approcci col mondo, con l’altro sesso. Stava studiando inglese e le avevo passato The Rising, l’album che Bruce ha scritto dopo l’11 settembre (glielo aveva chiesto un tizio in un parcheggio, gridando dal finestrino: «Ora abbiamo bisogno di te!»). La storia di quei pompieri, la rabbia e insieme la voglia di rinascere dalle ceneri l’avevano colpita profondamente. Non so se c’entri, ma le terapie paradontali da lì in poi sono diventate più efficaci. Anzi, ora che ci penso quella non è stata l’ultima volta. Da un po’ di tempo ho un carteggio con un collega che sta imparando a suonare Born to Run con il basso. E mi tiene informata sui rumors riguardanti il prossimo disco. No, nessuna love story. Ma mi sono iscritta a una scuola di musica. Vuoi vedere che magari la prossima volta chiama me sul palco?