Non se lo dicono, nemmeno lo decidono, ma lo fanno. Da quella notte cominciano a fare l’amore senza difendersi da niente di tutto quello che potrebbe accadere. Per esempio un figlio.

Oppure un figlio.
O, magari, un figlio.
Sarà stato il raki. O quel discorso di Erre.
Chi lo sa.

Lo fanno anche se, in realtà, ancora non si conoscono? O proprio perché in realtà ancora non si conoscono? Lo fanno perché non hanno neanche sessant’anni in due e non possono fino in fondo immaginare che cosa significhi avere un figlio? O perché già sanno che tanto un figlio non si può immaginare fino in fondo, o viene o non viene, e c’entra sempre e comunque una voglia pazza che a ragionarci per bene, ma davvero per bene, non può che passare? (...)

Lo fanno perché, per abbandonarsi fino in fondo a qualcuno, a qualcosa, bisogna sempre abbandonare qualcun altro, qualcos’altro. (...)

E per abbandonarsi a Di, adesso, lei deve abbandonare il suo mito, l’idea di non potersi abbandonare mai a nessuno, la certezza di venire prima o poi abbandonata da tutti: e allora vieni, strano uomo con lo sguardo sbilenco, pensa e non dice, vieni fino in fondo dentro di me. Ma si deve per forza essere tanto estremi? Chiederà al dottor Massimini. L’abbandono non può essere un mistero dolce, dove scivolare a occhi chiusi mentre il mondo per un istante trattiene il fiato, si gira e ti lascia fare? Assolutamente no, le risponderà lui.

“Davvero tu credi che a gennaio, quando tornerò a Roma, potrebbe finire tutto fra di noi?”
“Non ho detto questo.”
“Invece sì.”
“E allora forse l’ho fatto perché tu reagissi, dicessi qualcosa.”
“Per esempio?”
“Per esempio: no. No che non finirà tutto.”
“Potevi dirlo direttamente tu.”
“Potresti pensare ogni tanto di non essere l’unica, ad avere paura.”
Costanza.

Così la chiamerebbero. Perché se arriva sarà sicuramente femmina: ne sono certi. Lui ne ha sempre voluti tre, lei ancora non sa neppure se ne avrebbe mai voluto uno, ma quest’isola stregata dove ha sperato di non respirare più e cominciare a pulsare senza bisogno della sua volontà, come fosse una stella, ora la fa sentire all’improvviso invulnerabile. Divina.

E se non fossimo capaci?
Ce lo insegnerebbe lei.
Se si trattasse di decidere dove vivere, a Roma o a Torino?
Lo deciderebbe lei.
Costanza.
Perché mio nonno si chiamava Kostas, perché suona bene.

Costanza come la costanza che ci vuole, per un cazzone di ventotto anni, per mettere su un ristorante che sia nuovo ma resti anche vecchio, fedele a quello che è stato. Come la costanza che ci vuole, per una donna che crede nei suoi animaletti improbabili più che nelle persone, a convincersi che forse pure le persone, a guardarle bene, non sono altro che questo: animaletti improbabili. Tutti senza cuore, tutti innocenti. Costanza come quella che nessuno dei due ha mai avuto, lei troppo presa a rincorrere quello che non c’era, lui ancora troppo giovane, bravi ad aspettare l’onda, ad aspettare una tragedia o un’enormità qualsiasi pur di non stare fermi a guardare il mare quando è piatto e non succede niente, e poi ancora niente, incapaci di rimettersi ai giorni, semplicemente, alle ore. E adesso, per promettere alla bambina che arriverà ci sarò, sempre e comunque ci sarò, ci vuole amore, certo: ma per mantenere la promessa ci vuole costanza.

Costanza come la costanza che ci vorrà, quando si saranno conosciuti davvero e si deluderanno una volta, due. Quando scoprirai che sono permaloso, quando scoprirai che in testa o giù di lì ho davvero un allarme sempre pronto a scattare, quando la domenica pomeriggio non passerà mai, quando arriveranno Natale, l’allergia, la pancia, quando andremo al bagno e senza accorgercene lasceremo la porta aperta, quando l’umore blu balzerà inaspettato dal suo angolo cieco e si prenderà tutto. Quando dovrò consegnare un lavoro ma non avrò nessuna idea e risponderò male a te anche se non c’entri niente, dice lei. Quando uscirà fuori la pigrizia che tutte le mie ex mi hanno sempre rimproverato, dice lui. Perché: quante ne hai avute?, chiede lei. La costanza che ci vuole per fidarsi.

Costanza come quella che ci vorrebbe per perdonare mio padre, dice lui. Come quella che ci vorrebbe per smetterla di sperare che mia madre cambi, dice lei. La costanza che ci vuole per non cedere a Papà Trauma e Mamma Ossessione. Per riconoscere il nostro mito: e poi tradirlo. Costanza: quella che ci vuole per riuscire ad abbandonarsi. E però non abbandonare. Secondo te è possibile? gli chiede lei. Cosa? Tenere tutto insieme, dentro, il mito e la vita nel frattempo, quello che siamo stati e quello che saremo, quello che muore e quello che nasce. Secondo me sì, risponde lui.

Assolutamente sì.
Ma ci vuole costanza.

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Courtesy Feltrinelli

Questo testo è tratto da L’isola dell’abbandono di Chiara Gamberale (Feltrinelli, € 16).