Frustrazione numero uno: la creatività in ufficio non serve a niente perché molto spesso in un’azienda la cosa più intelligente è chiedere ai dipendenti di continuare a fare bene quello che stanno già facendo. Frustrazione numero due (e tre insieme): sei precario e ti capita uno tra i quattro datori di lavoro peggiori (il finto Zuckerberg che crede di avere per le mani la startup del secolo, il direttore marketing sui 50, vecchio stile e flessibilità nulla, l’artista-imprenditore baby boomer, e infine il capo del personale di un low cost in franchising).

A Molly è toccato il capo dei capi peggiori. «Mi avevano consigliato di non accettare il lavoro», ha raccontato a Red Online, «e forse avrei dovuto prendere in considerazione quell’avvertimento, ma ero convinta che non mi sarebbe mai più capitata un’offerta simile. Avevo l’opportunità di diventare l’assistente di qualcuno di molto importante. Quello che non avevo messo in conto però, era che quel datore di lavoro tanto distinto e conosciuto si sarebbe poi rivelato una vera stronza».

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Quando l’opportunità si trasforma in condanna, o peggio, tortura «Il lavoro era mio. Il capo pure», continua Molly, «a volte era di buono umore e in quei giorni si lavorava tanto e bene. Ma molto più spesso però aveva un diavolo per capello e finiva per rovinarmi la vita. Mi ricordo un pranzo, mi chiese di andare a prenderle del sushi, “ha preferenze?”, le chiesi, le mi rispose di no. Al mio rientro in ufficio mi lanciò letteralmente addosso l’intera sushi-box urlandomi quale fosse il mio problema. A quegli ingredienti era allergica ma si era dimenticata di comunicarmelo».

Fiducia praticamente nulla e sospetto cronico «Tutto quello che facevo non andava bene, avevo paura, paura di lavorare. Era assurdo. Il timore più grande che provavo era di farla arrabbiare, in quel caso mi avrebbe reso la vita impossibile. Era riuscita a convincermi che il lavoro che facevo e i gli sforzi sovrumani erano fuori luoghi, imprecisi e spesso inutili. E fidatevi, non esiste niente di peggio del sentirsi totalmente disutili. Per questo motivo iniziai a bere troppo, a stalkerare i miei flirt dell’epoca, ad avere crisi di panico e di pianto. Insomma, ero distrutta. Compromessa da un capo crudele».

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La pietà dei colleghi «Moltissime persone in azienda mi guardavano come si guarda un cucciolo maltrattato. La compassione? No dai, per carità, era davvero troppo. Lei lo capì, forse non ero adatta, forse non ero abbastanza forte o forse provavo troppo amor proprio per stare al suo fianco e alle sue regole, così mi licenziò. La mia reazione fu un misto di sollievo e rabbia. Quella donna mi aveva rovinato la vita. Palestra di vita? L’esperienza che mi avrebbe reso più forte? Ovvietà e cazzate. Dopo quel lavoro ho fatto la stagista in una piccola startup di zona. Fu un enorme passo indietro ma un compromesso necessario per ricominciare. Quel posto diventò il mio rifugio, la mia palestra delicata dove ho potuto crescere e dire la mia. Una vera lezione di vita sussurrata.

Oggi, dieci anni dopo quel primo lavoro e quel capo-bullo, ho 35 e lavoro nel marketing di una grossa azienda e come giornalista freelance per qualche giornale online. Oggi, da quell’esperienza mi porto dietro la certezza di quello che NON voglio e di ciò che non reputo necessario per formare un professionista. Mi ha insegnato come evitare i prepotenti e come ascoltare i leader. Oggi che sotto di me coordino un piccolo team di persone, mi assicuro che riescano a lavorare nel modo più sereno possibile. Ho capito che se sono felici loro, il lavoro andrà meglio. Ah, ho anche imparato che se qualcuno ti suggerisce di non prendere un lavoro, forse bisognerebbe ascoltare».