Non mollare mai, è questo il modo giusto di prendere la vita, lo so. Però ogni tanto le certezze vacillano. I pensieri bui della notte, un brutto inciampo, le paturnie. E adesso? Adesso, cioè un mese fa, le stelle che aiutano a orientarsi sono tornate a brillare. Mio figlio, che ha 25 anni e vive a Roma, è di passaggio a Milano. E io, per il puro piacere di stargli appiccicata almeno un po’, mi metto a guardare con lui Ajax-Tottenham in tv. Già la sera prima il Liverpool aveva ribaltato il Barcellona, e per le rimonte (e la mia gioia) pensavo potesse bastare. E ora sono ancora qui, che via via mi entusiasmo e comincio a tifare Tottenham. Perché i suoi giocatori sono più belli, più allegri, più tutto. La fine penso sia nota: ha vinto il Tottenham dopo un’altra rimonta incredibile e grazie a un gol quasi oltre l’ultimissimo istante. E pazienza le lacrime dei giocatori dell’Ajax, le facce ghiacciate dei tifosi olandesi. It ain’t over ’til it’s over diceva Yogi Berra, gigante del baseball, diffondendo quel suo speranzosissimo slogan come un mantra, che poi è diventato anche il titolo di una canzone di Lenny Kravitz. Ma un conto è una frase che suona bene, un altro è vedertela lì, realizzata, questa cosa che Non è finita finché non è finita. Una roba che abbatte in un soffio il muro grigio dell’incredulità. Se poi una scena simile si ripresenta pochi giorni dopo, be’ non può essere un caso: ancora lo sport - il basket, semifinali della Eastern Conference Nba, gara 7, vai avanti o vai a casa -, ancora io che lo guardo per interposta fascinazione, e ancora uno stupefacente finale. All’ultimo istante di gioco Toronto fa un canestro impensabile e vince 92 a 90 su Philadelphia.

Ora, chi se ne importa della Champions League e dell’Nba (anche se non è facile immaginare scenari epici come quelli che regala lo sport). Ma il punto è: non è finita finché non è finita, sempre. E vale per tutti, e per tutto: i sentimenti, il lavoro, le grandi fatiche, i sogni, i dolori, lievi ma anche assoluti. E l’amore, forse soprattutto l’amore. Io non lo so dov’è che s’impara davvero a sentire così. Questione di dna, di fortuna, d’immaginazione. E di esempi, perfino negativi, tipo quel mio noiosissimo zio che ripeteva “ma cosa vuoi star lì”, intendendo le cose vanno come vanno e tu non ci puoi fare niente. Eh no, diamine, certo che ci si può fare qualcosa, almeno provarci. Meglio se con degli alleati che fanno la ola per te. Per esempio il García Márquez di L’amore ai tempi del colera, con quella chiusa memorabile per chi non si rassegna al non lieto fine; o le vertiginose 450 pagine di Questo bacio vada al mondo intero di Colum McCann, per trovare una ragione per andare avanti, sempre; o la trilogia del regista Richard Linklater (Prima dell’alba, Prima del tramonto, Before Midnight), per guardare da vicinissimo di cos’è fatto l’amore che non si perde per strada; o le sei puntate di After Life, la serie (da un paio di mesi su Netflix) diretta e interpretata dal magnifico Ricky Gervais.

Te lo possono raccontare in maniera fasulla, e allora non vale. Ma se te lo mostrano per quello che è, senza sconti, senza paura, senza facili consolazioni, allora ci credi che non è finita finché non è finita. Allora viva la vita fino all’ultimo secondo.