Il prossimo 20 luglio si celebrano i 50 anni dai primi passi di Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla Luna, mossi quel giorno del 1969 alle 20, 17 minuti e 40 secondi, ora di Greenwich. Mai come negli ultimi mesi, più che Marte (che l’anno scorso abbiamo visto tanto vicino ma che dista comunque, anche in quel caso, oltre 54 milioni di chilometri), il nostro satellite è tornato nelle mire delle agenzie spaziali di mezzo mondo. Su tutte ovviamente la Nasa, che da quando è guidata dal 43enne ex deputato repubblicano Jim Bridenstine – nominato da Donald Trump alla fine del 2017 e confermato solo dopo lunghi e tormentati mesi – ha avviato una fase del tutto nuova. Volente o nolente legata all’apertura alle compagnie private, come SpaceX di Elon Musk e Blue Origin di Jeff Bezos, che con i loro razzi riutilizzabili e le capsule spaziali stanno ridisegnando l’ecosistema presente e futuro dei viaggi spaziali.

A loro spetterà parte del compito di sfornare un nuovo vettore per gli astronauti a stelle e strisce. Il vettore che dovrà riportarli sulla Luna, che si chiami Crew Dragon o Blue Moon. Sempre che non ci sia riuscita prima la capsula Orion costruita in casa, il cui primo volo è previsto per il 2023 (ma a cui manca il lanciatore, cioè il sistema propulsivo, il cui sviluppo è in ritardo dai tempi di Bush figlio). In ogni caso, a bordo dovrà esserci la prima donna diretta sul satellite. Da poche ore, infatti, l’agenzia ha svelato il nome del nuovo programma: Artemis. Dopo Apollo, è tempo della sorella gemella. Sul piatto, Trump ha messo – per ora con un tweet – 1,6 miliardi in più per il budget della Nasa. Per tornare davvero a passeggiare come negli anni Sessanta pare ne serviranno otto, di miliardi.

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L’esplorazione lunare fu l’apice della corsa allo Spazio fra anni Cinquanta e Settanta, a sua volta uno dei perimetri in cui si dipanò il rompicapo della Guerra Fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica. Una reciproca e forsennata rincorsa ai primati che il film First Man di Damien Chazelle, tanto per rimanere agli ultimi titoli sul tema, racconta bene soprattutto nel clima e nell’ambizione sul lato a stelle e strisce: dal primo satellite artificiale Sputnik 1 nel 57 al triste ma trionfale sacrificio della cagnetta Laika, lo stesso anno, fino ovviamente al cosmonauta Yuri Gagarin nel 61, primo essere umano a orbitare nello Spazio, inseguito da Alan Shepard e John Glenn, passando ovviamente per l’epopea del programma Apollo e, prima, le sonde su altri pianeti come Venere e Marte.

Propaganda e cultura, tecnologia e straordinarie applicazioni pratiche, predominio globale e ideologie che condussero il pianeta sull’orlo di un conflitto nucleare: tutto questo, e altro ancora, si incrociò a bordo della navetta Vostok 1 così come delle Mercury. Lo Spazio, e la Luna, sembravano i traguardi di un’impresa che era al contempo, come disse il presidente John Fitzgerald Kennedy nel celebre discorso del 12 settembre 1962 alla Rice University di Houston, “un atto di fede e di visione”. Cioè lavoriamo oggi proprio perché non sappiamo cosa arriverà domani. Roboante e retorico, certo, utile alla galvanizzazione dell’epoca ma anche profetico, alla luce dello stato caotico in cui abbiamo ridotto il pianeta in cui viviamo nei decenni successivi.

Nuova corsa alla Lunapinterest
Courtesy Unsplash

Già nel 2017 Trump era tornato a spingere sull’acceleratore con una direttiva. Disegnando una strategia di presenza più solida, per quanto possibile, a partire dalla stazione spaziale in orbita lunare battezzata Gateway (pure quella in ritardo sulla tabella di marcia), da cui andare e tornare per la superficie consentendone uno studio continuativo e approfondito in attesa di un vero e proprio insediamento fisso. Per poi lanciarsi verso altre imprese. Se Bridenstine e le sue idee sono il braccio armato per arrivarci, poche settimane fa il vice Mike Pence ha tolto ogni dubbio sull’immediato futuro, dicendosi deluso dalle prospettive che vedevano nel 2028 un nuovo approdo e spingendo per uno sbarco nel 2024.

Al National Space Council dello scorso marzo, riunito allo Space and Rocket Center in Alabama, Pence ha tagliato la testa al toro, dando nuovamente (e ufficialmente) il via alla corsa lunare del XXI secolo: “La prima donna e il prossimo uomo sulla Luna - ha detto il 59enne ex governatore dell’Indiana - saranno americani, lanciati da razzi americani dal suolo Usa”. La scadenza quinquennale andrà rispettata “con ogni mezzo”. Chiunque ci riporti, l’importante è che sia tutto made in Usa e sotto il controllo Nasa. Nel frattempo l’agenzia continua a spingere sul lato nostalgico, ovviamente cavalcando l’appuntamento del mezzo secolo: ha infatti lanciato un programma piuttosto affascinante per raccogliere le memorie di chi quell’estate del 1969 c’era, di chi ricorda, di chi se l’è fatto raccontare.

Nuova corsa alla Lunapinterest
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Userà questa gigantesca narrazione orale in crowdsourcing per una grande quantità di scopi: non solo per alimentare la sua presenza sui social, ma anche per confezionare una serie audio dedicata all’esplorazione lunare e alle missioni Apollo. Stavolta, invece di far parlare i protagonisti direttamente coinvolti nello storico lavoro di quegli anni, l’ente americano cerca testimonianze da parte di chi ha osservato dal vivo o in TV in tutto il mondo (si trattò di circa 530 milioni di persone), lo sbarco di Armstrong e Aldrin.

Mentre il pianeta rischia davvero per il suo futuro, e i governi non sembrano in grado di fornire risposte chiare e rispettose degli accordi di Parigi di ormai quattro anni fa, ricomincia insomma una gara che stavolta ha un altro concorrente. La bandiera, però, è sempre rossa. Si tratta della Cina, che lo scorso gennaio ha spedito con successo la navicella cinese Chang’e-4 (dal nome della dea della Luna nella mitologia cinese) e il rover Yutu-2 “coniglio di giada”, atterrati nelle vicinanze del polo Sud lunare, ma sulla “faccia nascosta” della Luna. Si è trattato dei primi oggetti a raggiungere l’emisfero non osservabile dalla Terra a causa della sincronica rotazione lunare: gli Usa ci provarono nel 1962 e fallirono.

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Rivoluzione dei rapporti di forza, ribaltamenti geopolitici, un pianeta sull’orlo del collasso climatico quasi costretto a tornare a guardarsi intorno, nuova colonizzazione spaziale sovranista, tensioni legate alla crescita roboante di attori fino a dieci o venti anni fa del tutto assenti dal settore (basti pensare all’orbiter indiano Mangalyaan lanciato nel 2014). E ancora la fine programmata della Stazione spaziale internazionale verso la quale proprio il 20 luglio tornerà a volare l’astronauta italiano Luca Parmitano con la missione “Beyond”, di cui assumerà il comando: dal 2024 il più ambizioso progetto di collaborazione internazionale nato all’inizio degli anni Novanta proprio dalle ceneri della Guerra Fredda, e costato oltre 100 miliardi di dollari, chiuderà i battenti. E nello Spazio si apriranno nuovi spazi da occupare e inediti rapporti da scrivere.

Quali che siano le ragioni effettive (probabilmente un mix di ciascuna di queste) la “riconquista” umana della Luna sembra ormai la tappa obbligata, il passo propedeutico a qualsiasi altra fantascientifica missione, ben prima – non fosse che per le risorse a disposizione, economiche e tecnologiche – di Marte, dove continuano a lavorare sonde e rover come Insight, Exomars, Curiosity e Opportunity, il più longevo (5.438 sol, ovvero oltre 15 anni terrestri), ufficialmente dato per spacciato dalla Nasa lo scorso febbraio.

Il nostro satellite, che per giunta secondo uno studio appena pubblicato su Nature Geoscience si starebbe contraendo e sarebbe scosso da terremoti anche fino a 5 gradi di magnitudo, torna a chiamarci. Ma forse, stavolta, per dividerci: “La sua conquista merita il meglio di tutta l’umanità, le cui opportunità di cooperazione pacifica potrebbero non ripresentarsi” disse Kennedy sempre quel 12 settembre. Una cooperazione che, al momento, sembra più una corsa di contrapposti sovranismi spaziali.

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