«Quella volta che John Fitzgerald Kennedy mi sorrise, quella in cui vidi Raymond Burr o quando Eugenio Montale mi scrisse una dedica …». Il libro della giornalista Laura Laurenzi La madre americana (Solferino) in cui attinge ai ricordi di bambina nel pieno della Dolce Vita romana, è ricco di ricordi di sua madre, Elma Baccanelli. Non una mamma comune, niente a che vedere con lo stereotipo femminile degli anni 50. Di origini italiane, nata a New York City, laureata alla Columbia University e allieva dell’intellettuale senese (centenario) Giuseppe Prezzolini, aveva lavorato per il primo sindaco italoamericano della Big Apple, il leggendario Fiorello La Guardia. Arrivò in Italia subito dopo la guerra come ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti d’America. Era una donna piena di joie de vivre, solida, forte, pratica, ma anche idealista. A Roma incontrò l’uomo che ha sposato, Carlo Laurenzi, firma storica del giornalismo italiano, con cui ha avuto due figli, Martino e Laura. Elma però non si limitò al ruolo di genitrice, scelse di mettere la sua vita anche al servizio degli altri e ha aperto il cuore oltre le mura domestiche. Sull’onda del Piano Marshall, salvò dalla povertà 11.385 bambini italiani a cui la guerra aveva sottratto tutto. Per 22 anni - fino alla primavera del 1969, poco prima della sua prematura morte a 50 anni - Elma Baccanelli sarà al vertice del Foster Parents Plan, la prima organizzazione umanitaria non governativa, che ideò anche la geniale soluzione delle adozioni a distanza. Un ambizioso progetto a cui aderirono star come Gary Cooper, Raymond Burr (l’avvocato della tv Perry Mason) Peter Ustinov, Harry Belafonte. Ma casa Laurenzi, grazie anche alla professione e al carisma del padre, fu il salotto in cui transitarono Giorgio Bassani, Carlo Cassola e tanti altri.

La madre americana

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Perché ha scritto questo libro ora, e non prima?
Il lutto è stato lunghissimo da elaborare, in famiglia per anni non ne abbiamo parlato. È un caso, ma questo 11 luglio saranno 50 anni che mia madre è morta. Forse inconsciamente l’anniversario di mezzo secolo mi ha spinta a farlo. È un libro che si è scritto da solo, un po’ come se in autoipnosi ci fosse una persona dentro di me che dettava.

Cosa le raccontò sua nonna materna Cia degli anni al Greenwich Village?
Cose anche banali, come il fatto che arrivò in America senza sapere una parola di inglese e vedendo ovunque la scritta “sale”, in vendita, credeva che dappertutto vendessero sale. Però aveva capito perfettamente che era la terra delle opportunità. Vivevano in una bella casa del Greenwich Village. Tutto cambiò dopo il crollo in borsa del 29: ricordava i titoloni dei giornali e il clima di disperazione. Lei che non aveva mai lavorato si mise a lavare le scale dei palazzi, mi auguro per lei che non fossero dei grattacieli. L’idea di vederla con secchio e spazzolone prima mi spaventava, adesso mi inorgoglisce.

Sua madre cosa le diceva dello storico sindaco di New York, Fiorello La Guardia?
Lavorò come sua assistente durante il suo 3° mandato consecutivo, concluso nel 1945. La Guardia, soprannominato “Little Flower” per la modesta statura, fu molto amato, coraggioso e dichiarò guerra al gioco d’azzardo. Sognava di chiudere la sua carriera spettacolare come ambasciatore degli Stati Uniti a Roma e pare che mia madre fosse tra coloro che ebbero informalmente il compito di sondare il terreno; ma alla fine non fu scelto. Energico, parlava 7 lingue perfettamente, era battagliero e gran lavoratore. Vedovo da anni, si innamorò della sua assistente; la notte di Natale la invitò a cena e la licenziò perché non voleva si dicesse che aveva corteggiato la segretaria. Si sposarono poco dopo e fu un matrimonio felice durato tutta la vita.

Sua mamma a 25 anni venne in Italia con gli alleati, le disse cosa significò per lei?
No e non so neanche esattamente dove abbia incontrato mio padre. Mi raccontò molto di più mia nonna. Ricordava che la notte prima della partenza mia madre aveva le lacrime agli occhi perché l’ordine era di non dire neanche ai genitori la destinazione. Era un soldato, abituata ad obbedire e non trasgredì, ma per lei fu un sacrificio non poter tranquillizzare la famiglia.

Com’era il suo lavoro a capo della sezione italiana del Foster Parents Plan?
Le racconto con i miei occhi da bambina e ragazza. Ogni tanto andavo in ufficio da lei, mi faceva giocare con il ciclostile o disegnare. Mi colpì molto come fosse una direttrice dal volto umano che aveva a cuore ogni impiegata. Con gran senso dell’umorismo, ad ogni carnevale organizzava una festa mascherata in ufficio, cosa inusuale. Sentiva la grande responsabilità nei confronti dei bambini che aiutava. Partiva in missione un paio di volte al mese e andava casa per casa a verificare le loro condizioni: se non li trovava a scuola si faceva dire dov’erano, magari a lavorare dal gommista…e li rintracciava. Il lavoro minorile all’epoca non era il capriccio di chi non voleva studiare, ma un destino. Gli assegni che arrivavano dall’America erano un sostegno perché le famiglie in difficoltà non dovessero mandare i bambini a guadagnare, ma li facessero studiare. Su questo non transigeva.

Al progetto aderirono grandi star, cosa ricorda di loro?
Un pomeriggio in cui feci visita a mia madre vidi seduto in ufficio Perry Mason, ovvero Raimond Burr, non ancora corpulento, in giacca e cravatta. Non lo sbandierava, ma era l’attore più generoso di Hollywood. Devolveva a piene mani a ospedali, centri di ricerca, organizzazioni umanitarie ed aiutò 26 bambini. Mi colpì anche il caso della bimba di Matera adottata dall’intero equipaggio di un sottomarino. Più persone per un solo bimbo, o una sola persona per più bambini. Ecco le soluzioni.

Sua madre accompagnò Gary Cooper a conoscere la bambina che aveva adottato a distanza…
I benefattori non sempre attraversavano l’oceano, la volta che lo fece Gary Cooper, fu un avvenimento. Mia madre non si vantava, ma ho una foto di lei con lui e la sua bella moglie sullo sfondo di Pompei. Sul retro scrisse “Lo vedi in compagnia di chi sono? Mi invidi? Ahahaha”. Era il 1953, l’anno in cui l’attore vinse l’Oscar per “Mezzogiorno di fuoco” e venne in Italia, in un paesino in provincia di Caserta, per conoscere la bimba orfana di padre, Raffaella, che aiutò a finire gli studi con assegni mensili per anni. Lei ricorda che si presentò baciandola sulle guance e dicendo “Io sono il tuo secondo papà, vuoi venire in America con me? …D’ora in poi quando andrai al cinema devi dire che sei la figlia di Gary Cooper e non dovrai mai pagare il biglietto”.

E quando la portò a vedere il passaggio di John Kennedy?
Era il primo luglio 1963, stavamo andando al mare e mia madre, sapendo che sarebbe passato il corteo presidenziale, accostò la macchina in un punto strategico. Poco dopo, davanti alla prima folla che accolse il presidente sulla strada dall’aeroporto, arrivò questa enorme macchina, scoperta come quella di Dallas. Kennedy era di una bellezza spettacolare: un misto tra un attore di Hollywood, di quelli positivi, e il tipico ragazzo di buona famiglia di Boston. Mi colpirono i suoi capelli rossi che non si vedevano nelle foto e nei filmati dell’epoca ancora in bianco e nero. Era un grande comunicatore che parlando o salutando più persone sembrava si rivolgesse singolarmente ad ognuna di loro. Nei pochi secondi in cui la macchina rallentò ci guardò, salutò uno per uno…e mi sorrise. Una sensazione fortissima che credo avvertirono tutti i presenti.

Quando fu assassinato, fu la prima ed unica volta che vide sua madre piangere.
Vero. Non l'ho vista versare una lacrima neanche malata e in fin di vita. Quando Kennedy fu ucciso a Dallas poco dopo, il 22 novembre, ero ancora piccola e non capii subito la gravità della notizia. Ma percepii che avrebbe fatto molto male a mamma. Lei si chiuse in camera senza parlarmi, mi escluse dal suo dolore, per pudore o forse per proteggermi. Diceva sempre che “A tutto c’è rimedio meno che alla morte” e quello fu per lei un colpo durissimo.

Che esperienza è stata il vostro primo viaggio in nave verso l’America?
Lei stava tornando a casa. Ho memoria di molto divertimento, eleganza, la cena col comandante che ci parlò dei film girati a bordo. La partenza in una selva di stelle filanti tenute ai due estremi, da chi partiva e chi restava, che si spezzavano quando la nave salpava. Una volta tagliai la fila per il buffet vicino alla piscina, e un signore mi disse in inglese ”Non si fa, ma sei talmente carina che questa volta ti perdoniamo”. Mia madre mi avvertì che in America non c’erano tante regole, ma quelle poche andavano assolutamente rispettate.

Sua mamma era modernissima, come si destreggiava tra lavoro e famiglia?
Riusciva a fare entrambe le cose. Era molto presa dal lavoro e aveva meno tempo per me, ma quel poco era “quality time”. Non veniva a prendermi o accompagnarmi, non mi portava ai giardinetti ed altre cose che erano demandate alla tata; però quando stavamo insieme sentivo fortissima la sua impronta e il suo amore. Ricordo come insistesse che io parlassi sempre inglese, era perfettamente nel giusto, ma a volte per dispetto o pigrizia le rispondevo in italiano, addolorandola.

Cosa ha significato crescere con una madre così dedita anche agli altri?
Trovavo le foto dei bambini che aiutava, e mi chiedevo se dovessi esserne gelosa. Erano foto tristi, di bimbi che non avevano niente, mentre io avevo tutto. Il grande insegnamento che mi ha dato con il suo lavoro è che “L’amore non si divide, ma si moltiplica.

Che tipo di legame conservò con l’America?
C’erano le sue amiche più care, compagni di università e persone per lei importanti. Ci andava spesso e poi ci faceva resoconti sui cambiamenti che aveva notato. Un anno tornò da uno dei suoi lunghi viaggi in aereo, e disse che in America non fumava più nessuno perché avevano scoperto che faceva male alla salute, e lei smise di colpo. Negli anni 50 molte cose non si sapevano ancora, ma leggeva moltissimo e si interessava anche di giornalismo scientifico.

Com’è stato crescere con due genitori così unici: qualche aneddoto?
In casa non si litigava né si alzava mai la voce. Anche loro avranno avuto dissapori come tutte le coppie, però mai davanti a noi figli; una forma di grande civiltà. Poi ci trattavano da adulti. Mia madre promise a me e mio fratello una grossa somma di denaro se entro i 21 anni avessimo letto 100 libri, perché per lei leggere era più importante che studiare. La domenica ci caricava sulla 500 e ci portava a vedere ogni volta una chiesa di Roma, sostenendo che visitarla, scoprirne la bellezza, dire una preghiera e accendere una candela equivalesse ad andare a messa.

Che padre è stato il suo?
Anche lui era fenomenale. Ci leggeva le novelle di Edgar Allan Poe prima di dormire, o essendo molto spiritoso, in pieno 68 ci disse che dovevamo dargli del voi e chiamarlo signor padre. Parlava spesso in latino ed io pensavo che lo stesso accadesse nelle altre famiglie.

Che anni furono quelli della Dolce Vita Romana. Cos’era allora il glamour?
Il glamour che ho vissuto di riflesso non riguardava gli attori quanto piuttosto gli intellettuali; mio padre era intimo di personaggi come Flaiano e Montale, frequentava Bassani, Brancati, Cassola e Macchia. Però il mondo del cinema era un passo da casa. In Via Veneto, soprattutto di notte, si era nel pieno della Dolce Vita, ma non ce ne rendevamo conto. E’ stato un periodo di crescita, trasgressione, anche eleganza un po’ provinciale. Gli attori americani affollavano i set della Hollywood sul Tevere perché c’era un clima di moderna tolleranza e potevano lasciarsi andare più liberamente. Io ero divisa tra l’eco dell’estrema povertà dei bambini del sud, la piaga della fame e delle malattie, e dall’altra l’euforia, gli scandali e il lusso sfrenato.

I suoi genitori organizzavano con discrezione cene e cocktail con ospiti come Eugenio Montale: un flash di quell’incontro?
Alle medie la professoressa ci fece una lezione comparata del quadro “I girasoli” di Van Gogh e della poesia di Montale “Portami il girasole ch’io lo trapianti”; era così abile che fu come se il pittore avesse scritto la poesia e il poeta avesse dipinto il quadro. Quando una sera Montale, che all’epoca era il più grande poeta italiano ma non aveva ancora ricevuto il Premio Nobel, venne a cena, mia madre gli chiese di farmi una dedica. Lui fu molto cordiale, mi strinse la mano e fece l’inchino, poi su una prima edizione di “Ossi di seppia” la scrisse, senza perderci molto tempo. Rimasi malissimo e mi sentii insignificante quando lessi: “A Laura Eugenio Montale”. Era di un’essenzialità telegrafica, senza neanche la virgola.

L’incontro tra suo padre e Winston Churchill?
Nel 1955 Churchill, perdute le elezioni, decise di trascorrere la prima vacanza della sua vita a Siracusa, nel lusso di Villa Politi che gli riservò l’intero piano nobile. Disse che non avrebbe concesso interviste. Mio padre incaricato dal suo giornale di raccontare le “Italian holidays” dell’ex primo ministro inglese ebbe l’intelligenza di trovarsi nel suo stesso albergo e, cosa oggi impensabile, riuscì ad entrare in ascensore con lui. Stava per fargli una domanda, ma il vecchio leone capì subito di avere un giornalista tra i piedi e, tra il burbero e gentile, gli disse “Non ho niente da dirle, ma ho qualcosa da darle” e con gesto confidenziale gli infilò nel taschino della giacca uno dei suoi famosi sigari cubani Romeo y Julieta. Online ho trovato un filmato in cui Churchill esce dall’hotel con la moglie, e una delle persone che saluta con un accenno è mio padre.

Carlo Levi fece il ritratto a sua madre, come mai per anni restò in un armadio?
Levi era malato agli occhi, dipingeva nella penombra e tutti i suoi quadri hanno un’aria un po’ ai confini con la notte. Mia madre all’epoca era giovanissima e molto bella, ma nel quadro sembra invecchiata, segnata. Fatte le debite proporzioni è un po’come il ritratto che Picasso fece a Gertrude Stein dicendole “Questa non sei tu adesso, ma come diventerai”. Mia nonna lo detestava e lo nascose. Fu poi recuperato da mio fratello che me lo regalò per i miei 50 anni. Il dono più bello mai ricevuto, l’unico quadro appeso nella mia camera da letto, sopra la scrivania.

Sua madre è morta giovane, i ricordi più teneri che ha di lei?
Ne ho tanti. A Natale andavamo a Piazza Navona piena di bancarelle, c’era la Befana di cui avevo paura e sentivo che mamma mi proteggeva; o quando andavamo allo zoo, e i tanti pomeriggi trascorsi insieme. Poi ho ricordi negativi: mi addolora non aver capito quanto fosse malata. Non so perché non mi abbia avvisata di quanto stava per accadere e non mi abbia detto come avrei potuto gestire il dolore. Neanche mio padre me ne parlò, credo volessero proteggermi. Io qualcosa intuii quando un infermiere le disse che doveva sottoporsi alla cobalto terapia.

Lei aveva 16 anni, quanto è stato difficile crescere senza una mamma così, e cosa le è mancato di più?
L’autorità materna, perché mio padre aveva demandato a lei questo ruolo; lui non voleva essere impopolare e in seguito investì mio fratello 18enne dell’enorme responsabilità di dirmi cosa potevo o non potevo fare. Mi è mancata una figura femminile con cui confidarmi, fare shopping e condividere le cose che normalmente uniscono mamme e figlie. C’era mia nonna Cia, era eccezionale, ma aveva 80 anni ed era un’altra cosa.

Scrivere questo libro è stato doloroso, catartico o…?
Doloroso per niente, catartico molto, insospettabile la facilità con cui, man mano che scrivevo, riaffioravano ricordi che neanche credevo di avere.